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«Le famiglie delle donne uccise sono lasciate sole a gestire il dolore»

«Le famiglie delle donne uccise sono lasciate sole a gestire il dolore»

VIOLENZA MASCHILE Un’intervista con Stefania Prandi, autrice di «Le conseguenze. I femminicidi e lo sguardo di chi resta». Reportage durato tre anni. «I cosiddetti «orfani speciali» non hanno un supporto adeguato dalle strutture di riferimento, ad esempio ai servizi di psicoterapia, ai risarcimenti e ai fondi della legge 4 del 2018»

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 27 novembre 2021

«Ho deciso di concentrarmi sulle conseguenze dei femminicidi sulle famiglie, la prima cellula della società. A pagare le conseguenze di questi crimini sono madri, padri, figli, sorelle, fratelli». Stefania Prandi, giornalista e fotografa, negli anni ha realizzato importanti reportage in Italia, Europa, Africa e Sudamerica. Tra i suoi temi le questioni di genere, il lavoro e i diritti umani.

Nel volume «Le conseguenze» (Settenove) ha raccontato la vita di chi resta dopo il femminicidio. Cosa ha significato per lei occuparsene?
Il libro esiste grazie al contributo di chi ha deciso di incontrarmi. Insieme è stato possibile mostrare che le vittime, le donne uccise, hanno resistito, come potevano, per se stesse, per la vita che avevano costruito, per i propri progetti, per le figlie e figli. Attraverso le loro testimonianze e le sentenze dei processi ho ricostruito quindici casi diversi di femminicidio che dimostrano come il fenomeno della violenza maschile contro le donne sia complesso e differenziato. In alcuni casi c’erano stati segnali eclatanti e in altri no. In altri casi ci sono donne scomparse, mai più ritrovate. Le donne appaiono nel libro attraverso le parole di chi le ha davvero amate e continua a lottare perché non vengano dimenticate. Uno dei fili conduttori è proprio quello della reazione dei familiari, che hanno fatto diventare il loro dolore politico, che hanno reso il personale pubblico. Famigliari che scrivono libri, organizzano incontri nelle scuole, nelle piazze, lanciano petizioni, partecipano a trasmissioni televisive, raccolgono fondi per iniziative di sensibilizzazione e sostengono le donne in situazioni di violenza che cercano il loro supporto. Lo scopo è dimostrare che quanto si sono trovati a vivere non è dovuto alla sfortuna né alla presunta colpa di chi è stata uccisa, come si sentono rinfacciare spesso, più o meno esplicitamente, ma ha radici culturali ben precise. Vogliono fare in modo che il ricordo resista al passare del tempo e vogliono dare un contributo alla società, sensibilizzando, perché non succeda ad altre.

Dalle storie emerge una sfiducia nella giustizia, senza riparazione o risarcimento. In molti sono stati lasciati soli, pochi i servizi a sostenerli; esistono però le alleanze nelle esperienze comuni. È qui che il vissuto acquista una qualità politica?
Le famiglie che ho incontrato sono state lasciate sole ad affrontare la complessità del dopo-femminicidio, il dolore, l’iter giudiziario, penale e civile. Nei casi di figlie e figli sopravvissuti, nonni o zii si occupano dei cosiddetti «orfani speciali» senza un supporto adeguato delle strutture di riferimento – ad esempio, hanno accesso a servizi di psicoterapia in modo discontinuo e non sempre con personale preparato per traumi di questo tipo – e con la grande difficoltà di accesso ai risarcimenti e ai fondi previsti dalla legge 4 del 2018 (ne sono stati una minima parte, fino ad ora, nonostante le domande inoltrate). I rapporti che si instaurano tra questi parenti sono relazioni amicali, di supporto, di resistenza. Si sostengono e si aiutano, anche a distanza, si riconoscono: tra loro non c’è quel senso del sospetto che spesso la società gli riserva, l’idea, ad esempio, che in fondo non siano stati delle buone madri o dei buoni padri, che non siano stati in grado di crescere figlie abbastanza emancipate. A noi, che guardiamo da fuori, offrono una contro-narrazione importante che ribalta gli schemi che ci vengono proposti dai media mainstream rispetto al femminicidio e alle dinamiche della violenza maschile contro le donne.

Il suo libro precedente «Oro rosso» (Settenove) analizza la tenaglia del sistema bracciantile. Più di 130 le interviste raccolte. Un’altra forma di violenza contro le donne di cui non si parla abbastanza?
Oro rosso è arrivato dopo una mia inchiesta internazionale pubblicata in Germania, anche in collaborazione con la collega Pascale Mueller, che ha avuto un impatto, soprattutto in Spagna, dove si è creato un movimento di opinione contro lo sfruttamento lavorativo e le molestie sessuali in agricoltura sulle braccianti agricole, soprattutto migranti. Da lì è nato il sindacato di base femminista Jornaleras de Huelva en lucha. Direi che si sta iniziando a parlare più di prima di molestie sessuali, ricatti, abusi e stupri in agricoltura, anche grazie alle stesse braccianti, alle alleanze tra native e migranti. Lo scorso maggio sono tornata a Huelva con il media danese Danwatch, col collega Nikolaj Houmann Mortensen – i risultati dell’inchiesta sono stati pubblicati anche su Al Jazeera – e abbiamo riscontrato che la situazione di sfruttamento e abuso resta grave ma c’è molta consapevolezza tra le braccianti. In Italia sto seguendo, come giornalista, un progetto promosso da ActionAid per la formazione di leader braccianti donne – il report uscirà a maggio prossimo – che dimostra come le donne, quando trovano spazi di confronto e riconoscimento, riescono a fare sentire la loro voce e a reagire.

I dati sulle violenze e i femminicidi sono sconfortanti. I soldi per i Centri sono scarsi, il sistema che dovrebbe agevolarne il passaggio diventa una macchina burocratica quasi ingestibile. Cosa crede che debba e possa essere fatto?
Le donne formano una classe che è stata ed è percorsa da violenze maschili di vario tipo e intensità e con varie conseguenze. Violenze che sono servite e ancora servono per esercitare e mantenere intatto il sistema di oppressione patriarcale, il potere degli uomini. La strada compiuta negli ultimi cinquant’anni è stata importante, però molte conquiste si sono rivelate fragili e contraddittorie.
La violenza è uno dei meccanismi sociali decisivi per mezzo dei quali le donne sono ancora costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini, è una manifestazione dei rapporti di classe tra uomini e donne: non mi sembra ci sia una vera volontà di cambiare questo stato delle cose. Possiamo e dobbiamo discutere delle singole misure nel dettaglio, ma il sistema nel suo complesso mi sembra ancora lontano dall’essere ribaltato.

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