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Le due Italie nel Mercato comune

Le due Italie nel Mercato comune

L'articolo In questo saggio del 1959 la critica alla struttura monopolistica del Mec come fattore di aggravamento degli squilibri italiani. Con il Mec il rischio non esiste per questo o quel determinato settore produttivo ma per tutta l’economia

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 1 maggio 2018

La tesi della nostra rivista nei riguardi del Mec è già nota e se oggi torniamo sull’argomento non è solo perché polemiche e discussioni dimostrano che tuttaltro che univoco all’interno dello schieramento stesso di sinistra è ancora il giudizio sulla realtà e sugli effetti del Mec, ma perché tale dibattito non ancora e non in tutte le sedi è riuscito a individuare nella loro concretezza, ci sembra, i punti di dissenso, a enucleare i problemi di fondo, rispetto ai quali è da dire un «sì» o un «no» motivato al via del Mec al contenuto del Mec.

È per questo che ci proponiamo in questa sede di tornare sull’argomento: per fornire l’occasione a chi con noi non concorda nell’opposizione totale al Mec, di precisare su quali premesse concrete e su quali argomenti verte il dissenso; per enucleare un problema di fondo – quello delle due Italie qui identificate senz’altro per comodità di ragionamento, in Nord e Sud – come premessa da tenere sempre presente nella elaborazione di una politica positiva anti Mec, di una politica che non voglia limitarsi a collegare sul piano nazionale o europeo gli interessi lesi dal Mec, ma punti a conquistarli ad una prospettiva di sviluppo e di progresso. (…)

IL CONFRONTO TRA NORD E SUD ha profonde analogie con quello precedente tra l’Italia e gli altri paesi del Mec.

Squilibri analoghi sono emersi circa l’utilizzazione della popolazione attiva e il peso, relativamente maggiore, che in essa, come nella formazione del reddito, ha l’agricoltura.

Analoghi sono risultati i rapporti relativi al reddito e ai consumi, e la distribuzione degli investimenti, specie di quelli industriali, ha sottolineato tendenze verso un aggravamento del divario tra le due regioni economiche in cui, a quasi un secolo dall’Unità, è diviso il nostro paese.

La conclusione che si può trarre può apparire ovvia, ed è che lo squilibrio tra l’Italia centro-settentrionale e il Mezzogiorno diviene ancor più grave tra quest’ultimo e l’area degli altri cinque paesi del Mec. (…)

Gli attuali orientamenti a favore degli investimenti intensivi e la tendenza a conservare nell’ambito di alcune isole più sviluppate i frutti dell’accresciuta produttività non nascono da una libera scelta soggettiva del capitalista, da un indirizzo che può essere corretto lasciando immutato il sistema, ma nascono come conseguenza necessaria di una determinata struttura.

Non ci troviamo insomma di fronte alla libera scelta di una determinata politica, che contrasti la diffusione dei benefici della produttività, ma ci troviamo di fronte ad una struttura monopolistica che, per il fatto di essere tale e fino a che è tale, impedisce quella diffusione generale e organica dei benefici della produttività, che era invece possibile nel capitalismo concorrenziale.

Come è noto nella fase del capitalismo concorrenziale la distribuzione dei frutti del progresso tecnico si effettuava soprattutto attraverso una tendenziale riduzione dei prezzi a parità di redditi monetari.

Nell’attuale fase dell’economia capitalistica, invece, gli incrementi di produttività tendono a tradursi in aumento dei redditi monetari a parità dei prezzi. Mano a mano che si afferma il processo di concentrazione, e con esso il modo «nuovo» di distribuzione degli incrementi di produttività, la diffusione del progresso tecnico e economico diviene sempre più circoscritta e lo sviluppo del reddito tende a divenire sempre più settoriale.

La questione precedentemente posta ha quindi come suo necessario presupposto questo problema di fondo: modifica il Mec questa struttura monopolistica dalla quale discende necessariamente una aggravamento degli squilibri oppure la consolida e la rafforza? (…)

LA NOSTRA RISPOSTA È CHE IL MEC non indebolisce, anzi rafforza l’attuale struttura monopolistica.

E ciò, non solo per il semplice fatto che il trattato del Mec in nulla si propone di modificarla, ma soprattutto perché esso tende a creare condizioni più favorevoli al rafforzamento dei monopoli.

I gruppi monopolistici sono favoriti più di ogni altro dall’estensione geografica del territorio su cui potranno più liberamente operare. È certo infatti che nella più vasta area del Mec gli squilibri tra zone, settori, aziende vengono ad essere più numerosi e vari che nell’ambito dei singoli paesi. Ma, a questo punto, non si può dimenticare che oggi (quali che siano i privilegi che li hanno storicamente fatti sorgere) il potere dei monopoli poggia soprattutto ed essenzialmente sull’esistenza di questi squilibri. (…)

D’altra parte l’estensione del mercato rende possibile ai gruppi monopolistici l’applicazione di determinate tecnologie inadatte ad un mercato di minore estensione. Con ciò si vengono a creare nuove «discontinuità tecnologiche» che oltre a consolidare la posizione dei gruppi monopolistici, possono costituire la premessa di una politica aggressiva verso le piccole e medie imprese e favorire l’ulteriore concentrazione e l’incremento dei profitti. (…)

Intanto una prima conferma del fatto che il MEC crei condizioni più favorevoli al rafforzamento della struttura monopolistica ci viene dalla realtà; i gruppi monopolistici dei vari paesi stanno stringendo tra loro una serie di intese e di collegamenti che, in generale, non possono che rendere più fitta e soffocante la struttura monopolistica. Cartellizzazioni, intese, compenetrazioni finanziarie, processi di concentrazione non sono aspetti patologici del Mec, ma ne costituiscono l’intima essenza; il Trattato li ammette, i singoli governi li favoriscono, è la stessa logica del Mec a richiederli. (…)

Per completare il quadro occorre ancora precisare che il Mec non si esaurisce nella «libera circolazione delle merci, delle persone e dei capitali» ma determina una serie di impegni e di adempimenti che costituiscono una vincolante componente esterna per la politica economica di ogni Stato sovrano e inoltre prevede una «armonizzazione delle politiche economiche».

«Armonizzazione» che, come tale, è il risultato di un rapporto, in concreto di un rapporto di forze, che vede come potenza egemone la Germania occidentale. (…)

IN QUESTO ESAME, ABBIAMO mirato soprattutto a mettere in luce gli squilibri economici esistenti nel Mec e in Italia cercando anche di sottolineare le interdipendenze tra questi squilibri economici e l’attuale struttura monopolistica, per concludere nella tesi che il Mec crea condizioni più favorevoli al rafforzamento della struttura monopolistica e alla cristallizzazione degli squilibri, in particolare dello squilibrio tra Nord e Sud.

Non mai abbastanza si insisterà in Italia sul fatto che con il Mec il rischio non esiste per questo o quel determinato settore produttivo ma per tutta l’economia italiana e che il rischio non è tanto legato ad una particolare posizione dell’Italia nel quadro del commercio internazionale (anche se non è questo un elemento trascurabile), quanto piuttosto al fatto che in conseguenza del Mec, si avrà ancor più fortemente di prima, in tutti i settori produttivi, una spinta alla distorsione del processo di accumulazione a favore delle isole monopolistiche e delle posizioni nazionalmente e internazionalmente più forti, e a danno delle posizioni relativamente più deboli.

Non mai abbastanza, cioè, si insisterà sul fatto che il pericolo maggiore del Mec sta nella cristallizzazione e nell’aggravamento di quegli squilibri che segnano la frattura tra le due Italie.

estratti da «Politica ed Economia» n. 2, 1959

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