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Le domande di quei comunisti di nuovo conio

Le domande di quei comunisti di nuovo conioMilani, Rossana, Castellina e Magri al congresso del Manifesto del 1974 foto di Carlo Leidi

L'audacia del dubbio Nella sua lunga vita, appassionata e densa, il ruolo di Rossanda dalla Resistenza, alla radiazione alla fondazione del manifesto, si svolge sempre intorno a quell’unica richiesta di chiarimento, a sé e agli altri: siamo stati di qua o di là del regno della morale? Abbiamo fatto scelte giuste per i nostri ideali, o siamo stati come tutti - ciechi e proni solo alle ragioni della realtà, del potere?

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 22 settembre 2020

«Sono Miranda». È il nome di battaglia della giovane, 19 anni, Rossanda. Ultimi mesi di guerra. È una delle tante staffette che in quegli anni pericolosi muovono le ultime ruote del carro. Quasi fuori dalla comprensione dell’intero meccanismo. Ma affidate. Al primo venuto. A uno sconosciuto. Perché questo in fondo era credere. «Guardai l’uomo brizzolato, un viso serio, gli occhi chiari. Ci mettevamo l’uno nelle mani dell’altra. Anche tu? Si anche io. Molti attraversano la vita senza conoscere questo rapporto che per molto tempo avrei avuto, allora e dopo, dovunque andavo e che non ha pari». L’uomo di quel primo appuntamento si chiamava Remo Mentasti.

IN QUESTE ORE mi piace pensare a Rossanda come a una giovane donna. Lei che abbiamo conosciuto da sempre bianca, austera, immaginarla invece dritta come un fuso, con quella audacia incosciente che da giovane segna il tuo destino, senza che tu neanche lo sappia. Nel suo caso fu l’audacia del dubbio: «Implacabili erano le domande che assalivano una ragazza disposta a rimproverarsi la cecità piuttosto che ad assolversi con l’argomento che non è a lei che tocca capire», racconterà decenni dopo, per concludere: «Neanche noi eravamo senza macchia», «la Resistenza non fu tutta concordia e virtù». Si potrebbe in effetti datare proprio da quegli anni l’inizio della storia del manifesto. Le domande della staffetta attraverseranno, infatti, con esiti diversi, la storia dei comunisti, e non solo in Italia.

Nella sua lunga vita, appassionata e densa, il ruolo di Rossanda dalla Resistenza, alla radiazione alla fondazione del manifesto, si svolge sempre intorno a quell’unica richiesta di chiarimento, a sé e agli altri: siamo stati di qua o di là del regno della morale? Abbiamo fatto scelte giuste per i nostri ideali, o siamo stati come tutti – ciechi e proni solo alle ragioni della realtà, del potere? Dall’intervento della Unione sovietica alla fine degli anni ‘40 nei paesi del blocco dell’Est, alla denuncia dei crimini di Stalin nel 1956, all’intervento in Ungheria lo stesso anno, fino alla occupazione di Praga nel 1968, giù fino alla radiazione, il filo su cui si muove Rossanda – e il gruppo del manifesto- è questo. Quelle domande squadernavano la scelta del Pci: abbandonare la ragion di stato per mettere al centro la coscienza individuale dei tempi nuovi. Un confine che dividerà la generazione della guerra che rimane accanto alla Russia, da quella del dopoguerra che ha i piedi nell’idea della democrazia che poi avremmo chiamato occidentale, fatta di temi come partecipazione, libertà, etica individuale. Trasparenza.

«Nel partito nulla fu più come prima», ci racconterà molti anni dopo, Rossanda. «Nell’autunno del 1956 la bandiera ancora sventolava sul Cremlino e la lacerazione era quella del partito: il nostro. Il quale era certamente diverso da quel Pcus con le radici nella neve e negli Zar. Noi stavamo, bene o male, nella modernità e nella democrazia».
Ed è qui che si fa più chiaro quello che sarà poi il nesso ( o la mancanza di nesso) tra forma partito e democrazia/modernità della società. Una scelta che si fa man mano, irreversibile. «Togliatti ci aveva nascosto la verità. Aveva mentito», scriverà Rossanda, e a suo parere «il non dire fu l’errore più grande», quello che porterà alla fine del partito comunista nelle sue forme tradizionali.

SONO MOMENTI di lutto come questi in cui capiamo quanto poco ancora sappiamo del fattore umano che portò un pugno di intellettuali, cocciuti e irregolari, ad avviare una avventura quasi invincibile. Di certo dovettero avere la certezza che il dissenso pubblico e organizzato nei confronti del Pci non fosse una eccezione. Identici scontri e dubbi scossero i partiti comunisti anche altrove. Organizzazioni che avevano vinto la guerra, ma incapaci di capire gli sviluppi del dopoguerra – la modernità di un capitalismo dato per morente e che invece fiorisce e stupisce nel mondo nato dalla guerra fredda. E incapaci di capire, e infine digerire, la stessa Mosca. Sì, Mosca, e non solo il Partito comunista di Mosca. Mosca per tutto quello che aveva significato, la neve, il popolo, Puskin, Stalingrado: in una parola sola, il sogno che alla fine si era perso.

Forse la battaglia per «rinnovare» il Pc italiano, da parte del gruppo del manifesto non fu vinta, ma per vari decenni la sua esistenza fu un potente stimolo alla crescita della società italiana tutta. Quel gruppo di militanti colti, adrenalinici, che seppero afferrare le novità che arrivavano, furono i comunisti di nuovo conio.

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