Internazionale

«Le calorie abbondano»: la dieta di Israele per Gaza

In fila per la distribuzione del cibo a Deir al Balah foto Ap/Abdel Kareem HanaIn fila per la distribuzione del cibo a Deir al Balah – Ap/Abdel Kareem Hana

Striscia di sangue Per un gruppo di «esperti» dello Stato ebraico di cibo a disposizione ce n’è di più di prima, ma l’Onu lo fermerebbe. Al Sisi accetta che le merci per i palestinesi entrino temporaneamente dal valico di Kerem Shalom.

Pubblicato 6 mesi faEdizione del 26 maggio 2024
Michele GiorgioGERUSALEMME

I due milioni di abitanti di Gaza non soffrono la fame, anzi hanno a disposizione ogni giorno migliaia di calorie, tante di più rispetto a quelle necessarie. È questo il senso di uno studio israeliano che trova ampio spazio sui media. Il suo scopo è smentire che Gaza sia sull’orlo della carestia e che Israele stia compiendo violazioni a danno dei civili palestinesi rischiando, a cominciare dai suoi leader, una incriminazione da parte delle due Corti internazionali dell’Aia.

ACCADEMICI e funzionari della sanità pubblica israeliana – «di tutto rispetto», scrive il giornale online Times of Israel – dopo aver esaminato la quantità di cibo entrato nella Striscia di Gaza durante la guerra, hanno concluso che la fornitura di alimenti da gennaio ad aprile è sufficiente per il fabbisogno energetico e proteico quotidiano di uomini, donne e bambini. In poche parole, le Nazioni unite, l’Oms e le ong, secondo le ricerche di questi esperti, diffonderebbero notizie false – a cominciare dall’uso della fame di massa a scopo di guerra – per minare l’immagine di Israele.

Gli accademici, aggiungono i media, hanno preso in esame in particolare i dati del Coordinatore delle attività governative israeliane nei Territori (Cogat), che includono le spedizioni di generi alimentari per Gaza provenienti anche dai privati e non solo dalle Nazioni unite. E hanno «scoperto» che la disponibilità media di energia è stata 3.163 calorie a persona al giorno che supera lo standard accettato di 2.100 kcal pro capite, stabilito dall’organizzazione umanitaria Sphere, per la quantità minima di aiuti alimentari richiesta in risposta a una crisi.

Non solo, hanno anche accertato, che la quantità di cibo entrata a Gaza è stata «significativamente maggiore» nel periodo gennaio-aprile rispetto a quello precedente al 7 ottobre; quindi, prima che Israele lanciasse la sua offensiva militare dopo l’attacco di Hamas. In definitiva i palestinesi di Gaza hanno più cibo ora che in passato. Tutto è legato alla distribuzione delle merci che, scrivono i media israeliani, il Cogat favorisce in ogni modo mentre le agenzie dell’Onu non fanno il loro lavoro. Senza dimenticare, aggiungono, i «furti» di interi convogli umanitari da parte di miliziani di Hamas.

Sulla base di queste conclusioni avrebbe detto falsità anche la direttrice del Programma alimentare mondiale (Wfp), Cindy McCain, che il 3 maggio ha parlato di «carestia in piena regola» nel nord di Gaza riferendosi al rapporto presentato dall’organizzazione Integrated Food Security Phase Classification secondo il quale 677.000 persone si trovavano già in piena insicurezza alimentare.

Frottole, inclusi i 31 palestinesi, tra cui 27 bambini, morti per malnutrizione e disidratazione, secondo i dati del ministero della sanità di Gaza «controllato da Hamas» e l’articolo pubblicato venerdì dal New York Times sulla «fame che sta peggiorando a Gaza» e la necessità che Israele «revochi le restrizioni che impone sugli aiuti umanitari». Gli applausi invece andrebbero fatti al molo galleggiante da centinaia di milioni di dollari costruito dagli Stati uniti davanti alla costa di Gaza che pure sino ad oggi ha distribuito poche centinaia di tonnellate di generi di prima necessità e, comunque, sarà operativo solo per tre mesi.

RICERCHE e rapporti a parte, l’unica vera e concreta soluzione per portare il cibo alla popolazione di Gaza era e resta il trasporto con i camion, come ripetono da mesi le agenzie umanitarie, assieme alla riapertura di tutti i valichi esistenti con la Striscia. A cominciare da quello di Rafah, tra Gaza e l’Egitto, chiuso da circa tre settimane, dopo la sua occupazione da parte dell’esercito israeliano all’inizio dell’avanzata su Rafah.

L’Egitto insiste, vuole che a gestirlo sul versante di Gaza siano i palestinesi. Israele però non intende liberarlo senza avere la certezza che non sarà più controllato da Hamas: secondo alcune voci vorrebbe consegnarlo a una società privata di sicurezza americana. Usa e Ue cercano soluzioni, coinvolgendo l’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen (che esita) e, pare, di nuovo l’Eubam, gli osservatori europei che furono impiegati a Rafah tra il 2005 e il 2007.

Il risultato di questa paralisi causata dall’offensiva israeliana è che il valico resta chiuso mentre migliaia di camion con aiuti umanitari sono in attesa sul versante egiziano e centinaia di feriti e ammalati palestinesi in condizioni critiche non possono lasciare la Striscia per curarsi in Egitto. Venerdì il presidente egiziano El Sisi ha detto che permetterà che una certa quantità di aiuti umanitari e carburante sia consegnata attraverso il valico israeliano di Kerem Shalom «fino a quando non verrà istituito un meccanismo legale per riattivare il valico di Rafah dal lato palestinese».

 

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