Le banche tra mercato e corporativismo
Italia Da vent'anni nel nostro paese è in atto un processo di concentrazione. La metà del settore è nelle mani dei cinque maggiori gruppi. E il livello delle sofferenze ha doppiato quello di Francia, Gran Bretagna e Germania
Italia Da vent'anni nel nostro paese è in atto un processo di concentrazione. La metà del settore è nelle mani dei cinque maggiori gruppi. E il livello delle sofferenze ha doppiato quello di Francia, Gran Bretagna e Germania
In Italia le banche sono circa 700. Ma da vent’anni è in atto un potente processo di concentrazione del mercato: alla fine del 2012 i cinque maggiori gruppi (UniCredit, Intesa SanPaolo, Monte Paschi di Siena, Banco Popolare e Ubi) detenevano il 49% dell’attivo del settore, un valore doppio rispetto al 1996.
Le banche italiane sono arrivate alla crisi meno finanziarizzate delle loro omologhe europee: l’incidenza dei prestiti sull’attivo è circa al 60%, contro il 37% inglese, il 28% francese, il 26% tedesco. Ciò è stata una fortuna per i risparmiatori e per lo Stato, perché ci ha evitato i crac visti in altri paesi. Però ha significato da un lato subire tutta la fragilità del tessuto produttivo italiano, e dall’altro patire le carenze manageriali, organizzative e di governance che da decenni viziano le politiche di concessione del credito, i cui nodi son venuti al pettine.
Il livello delle sofferenze – cioè dei prestiti non restituiti – è giunto a più del doppio di quello delle banche inglesi, francesi e tedesche, secondo i dati della Federazione bancaria europea. A giugno le partite deteriorate (sofferenze e altri crediti dalla difficile prospettiva di rientro) hanno toccato i 300 miliardi, pari al 15% dei prestiti totali. La reazione principale, anche per indirizzo della Banca d’Italia e dei regolatori europei, si è soprattutto focalizzata sul recupero di patrimonio. Tra 2009 e 2012 l’indicatore principale (Tier1) è passato da un valore medio dell’8,9%, vicino ai minimi regolamentari, all’11,1%. Un risultato ottenuto però sacrificando la concessione dei crediti a famiglie e imprese (ogni prestito impegna patrimonio, che invece serve «libero»), scesi del 6% tra 2011 e 2013.
L’altra reazione difensiva dei banchieri italiani è stata la marchionnizzazione del confronto sindacale. Manager molto pagati, ma spesso non altrettanto capaci, si son dimostrati pronti a scaricare sui lavoratori le inefficienze delle aziende che guidano, senza peraltro rinunciare ai propri privilegi: secondo l’Eba (l’autorità di vigilanza europea), in Italia il numero di top manager bancari che guadagnano più di 1 milione è cresciuto nel 2012 del 14% rispetto all’anno precedente, mentre la redditività cadeva a picco. I banchieri italiani hanno una quota di remunerazione variabile (collegata ai risultati) pari al 30% di quella dei loro pari europei.
Il nostro comparto bancario è ancora troppo «pietrificato» – per citare quel Giuliano Amato che avviò le liberalizzazioni nel 1993 – tra modelli organizzativi obsoleti, sistemi di governance da prima repubblica, sacche di privilegi. Situazioni che la Banca d’Italia affronta troppo timidamente, in attesa del puntuale, ma tardivo, arrivo della magistratura. Ogni volta perdendo un po’ della propria autorevolezza. Oggi minata anche dall’ultimo pasticciaccio della rivalutazione delle quote, che regala 5 miliardi di euro alle due banche maggiori.
La banca di domani sarà altro da questo, o difficilmente sarà. Una banca capace di valutare l’intangibile, di scommettere sulle relazioni e non sulle corporazioni, di coniugare le competenze dei vecchi settoristi (gli specialisti del credito di un tempo) con le nuove tecnologie e i nuovi canali di distribuzione. Per cogliere quella domanda – sana – di credito che c’è. Come dimostrano i numeri di alcuni operatori “originali”, dalle Banche di Credito Cooperativo a Banca Etica, che in questi anni han visto crescere il proprio portafoglio crediti con tassi a due cifre, mantenendo le sofferenze sotto la media del settore.
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