La segretaria del Partito democratico Elly Schlein ha recentemente proposto di sperimentare la settimana lavorativa di quattro giorni. Apriti cielo. Non sia mai che in Italia, paese in prima linea nell’importare dall’estero precariato, aumento dell’età pensionabile e privatizzazioni selvagge ci si ispiri ai grandi paesi industrializzati anche quando si tratta di migliorare le condizioni dei lavoratori.

La riduzione delle giornate lavorative settimanali non è un tema solo in Germania, dov’è al centro della piattaforma del sindacato dei metalmeccanici. La possibilità di introdurre un terzo giorno di riposo settimanale – non necessariamente il venerdì – è oggetto di sperimentazioni e dibattito in vari paesi europei, nonché negli Stati uniti. Il tema è emerso nel mondo in diversi modi: sotto la spinta degli attori della società civile, come nel Regno Unito con l’Ong 4 Day Week Global; su iniziativa dei partiti in Belgio, Portogallo e Spagna; o dei sindacati, come in Francia o appunto in Germania.

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I vantaggi possono essere molteplici sia per le aziende che per i dipendenti: migliorare l’equilibrio tra lavoro e vita privata, affrontare il cambiamento climatico riducendo i trasporti e l’uso di energia, diminuire la disoccupazione, migliorare le condizioni di lavoro per coloro che non possono beneficiare del telelavoro, ridurre le disuguaglianze. Non solo: le sperimentazioni hanno fin qui mostrato un potenziale aumento della produttività. Bisogna però tenere presente che l’implementazione della settimana di quattro giorni significa ripensare l’organizzazione del lavoro. Esistono diverse formule per questo sistema. In Belgio l’orario lavorativo settimanale rimane lo stesso ma è concentrato su quattro giorni: le giornate lavorative durano nove ore e mezzo. Un altro sistema, il più diffuso, consiste nell’eliminare uno dei cinque giorni della settimana senza trasferirlo agli altri giorni, il che equivale a una riduzione dell’orario di lavoro. Questa formula è spesso riassunta dallo slogan «100/80/100», ovvero stipendio al 100%, orario di lavoro all’80% e produttività al 100%.

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L’idea di fondo è che sia possibile eliminare alcuni momenti di inattività nonché il numero di riunioni per guadagnare in efficienza senza alterare la produttività complessiva. In entrambi i casi ci sono dei rischi. Con il primo approccio, giornate lavorative lunghe possono portare a un’intensificazione del lavoro e nei casi più estremi al burn-out. Nel secondo caso bisogna invece stare attenti ad adattare il carico di lavoro per evitare di mettere sotto eccessiva pressione i lavoratori.

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Le sperimentazioni, per quanto preliminari, forniscono finora risultati molto incoraggianti. In Islanda – dove l’esperimento ha coinvolto 2.000 dipendenti del settore pubblico tra il 2015 e il 2019 – la settimana di quattro giorni ha portato a una riduzione dello stress legato al lavoro e a un miglioramento del benessere dei lavoratori, senza alcuna riduzione della produttività. Nel Regno Unito, dove l’esperimento ha coinvolto circa 3.000 dipendenti tra giugno e dicembre 2022, il passaggio a una settimana di quattro giorni ha visto diminuire i tassi di burn-out e di assenze per malattia rispettivamente del 71% e del 65%. In Francia, l’azienda informatica Ldlc ha sperimentato la settimana di quattro giorni dal 2021, notando un dimezzamento del numero di incidenti sul lavoro. Nel Regno Unito, negli Stati uniti e in Irlanda, nel gruppo di un centinaio di aziende che hanno testato la settimana di quattro giorni, la riduzione dell’orario di lavoro settimanale è stata compensata da un aumento della produttività oraria e da una riduzione dell’assenteismo e del turnover del personale.