La proposta di Elly Schlein di una settimana lavorativa di quattro giorni si inserisce nel solco di sperimentazioni, proposte, studi che vengono portati avanti da tempo in molti paesi. Non ultimo, ieri Carlo Calenda si è detto contrario in nome della fedeltà alla deregulation. «Abbiamo bisogno di collegamento alla produttività, decentramento della contrattazione, salario minimo – ha detto il leader di Azione – Irrigidimenti dei contratti, meno giorni lavorativi vanno nel senso opposto». Ma questi punti di riferimento appaiono obsoleti di fronte alla necessità di ripensare il nesso tra tempi di vita e tempi di lavoro e tra produzione e tempo libero.

Nel 2021, l’Islanda ha fatto sapere che la sperimentazione di una settimana lavorativa più breve nel settore pubblico tra il 2015 e il 2019 aveva portato a un aumento della produttività e all’incremento del benessere dei lavoratori. La Scozia sta investendo oltre 10 milioni di sterline in un processo analogo, in seguito all’impegno preso nel corso dell’ultima campagna elettorale dallo Scottish national party. Nel Regno unito, due anni fa 3300 lavoratori e 70 aziende hanno aderito al progetto pilota lanciato organizzato dalla ong 4 Day week global e dal think tank Autonomy con le università di Cambridge, Oxford e Boston. I lavoratori hanno continuato a ricevere il 100% dello stipendio timbrando il cartellino per l’80% delle ore previste e impegnandosi a mantenere il 100% della produttività. Secondo Forbes, a sei mesi dall’inizio della sperimentazione, la produttività era migliorata per la metà delle aziende. Lo scorso febbraio il Washington Post ha rilevato che delle 61 aziende che hanno preso parte alla sperimentazione, 56 hanno dichiarato che avrebbero continuato a implementare la settimana lavorativa di quattro giorni dopo la fine del progetto pilota. Quasi un terzo di esse ha annunciato che l’innovazione sarebbe divenuta permanente. Il 15% dei dipendenti che ha partecipato all’esperimento ha sostenuto che «nessuna somma di denaro» li avrebbe convinti a tornare al vecchio regime.

Anche in Spagna è stato finanziato un progetto pilota pluriennale di riduzione delle giornate lavorativa da proporre alle aziende interessate. Persino in Giappone, terra di solito considerata patria di stakanovisti e workaholic, il governo ha invogliato alla settimana di quattro giorni: la Panasonic, multinazionale dell’elettronica ha pensato di proporre questa soluzione. Anche Microsoft ha offerto ai suoi dipendenti un fine settimana di tre giorni per un mese: la produttività è cresciuta del 40%.

Dunque, la settimana lavorativa più corta non risponde solo alla (pur sacrosanta) aspirazione a lavorare meno e magari redistribuire meglio il lavoro. È un’idea che affascina anche le aziende e i politici non di sinistra. Del resto, l’idea di lavorare solo per quattro giorni riduce l’inquinamento, a partire dalle emissioni di carbonio prodotte dai pendolari. È stato calcolato anche un risparmio sulla spesa sanitaria e sulle assenza per malattia. Nel 2019, l’Health and Safety Executive ha sostenuto che la principale causa di assenze dal lavoro aveva a che fare con malattie causate dal troppo stress dal lavoro (il 54%). Uno studio della Henley Business School considera che una settimana di quattro giorni potrebbe far risparmiare alle aziende del Regno Unito circa 104 miliardi di sterline all’anno: i lavoratori sarebbero meno stressati, e prenderebbero meno giorni di malattia.

Nell’epoca delle grandi dimissioni, con milioni di lavoratori e lavoratrici di tutto il mondo che abbandonano lavori sicuri per andare alla ricerca dei valori della vita e tempi meno costretti, l’idea di lavorare meno pare tutt’altro che ideologica o scollegata dalla realtà materiale. Non bisogna essere anticapitalisti per comprenderlo, anche se probabilmente esserlo potrebbe aiutare.