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L’austerità non paga

L’austerità non pagaIl Colosseo chiuso durante le proteste dei lavoratori del settore beni culturali

Patrimonio Il rapporto annuale di Federculture fotografa il degrado italiano, tagli alla cultura e caduta dei consumi

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 2 luglio 2013

Anche chi, fino ad oggi, ha considerato la cultura come il «petrolio italiano», risorsa per l’economia immateriale e consumo fruibile per il turismo e l’intrattenimento delle famiglie, si è arreso davanti alla dura legge dell’austerità. Il rapporto annuale 2013 presentato ieri da Federculture in Campidoglio a Roma è netto nella definizione di un paese ha deciso di sacrificare sull’altare del patto di stabilità europeo la tutela del patrimonio culturale, il sostegno ai musei, alle biblioteche e all’istruzione pubblica.
Nel 2013 lo stanziamento per la cultura rappresenta lo 0,2% del Pil, mentre nel 2002 era lo 0,35%. Dal 2008 ad oggi, i beni culturali e le attività collegate hanno perso circa 1,3 miliardi di euro a causa dei tagli alla finanza pubblica statale e locale e della contrazione degli investimenti privati. Il bilancio annuale del Ministero dei beni culturali (MiBac) è sceso sotto i 2 miliardi di euro, perdendo il 27% del suo valore negli ultimi dieci anni. Il bilancio del MiBac prevedeva nel 2012 1 miliardo e 687 milioni di euro e quest’anno dell’8,3%, attestandosi a 1.547 milioni di euro. Questo dato macroeconomico dev’essere comparato ai fondi analoghi destinati alla cultura negli altri paesi europei. Così facendo è possibile comprendere come l’austerità all’italiana sia stata particolarmente efferata. L’Italia impegna a livello statale circa un terzo delle risorse che la Francia destina al solo ministero della cultura, cioè 4 miliardi di euro. Il bilancio italiano è di poco superiore a quello della Danimarca con 1,4 miliardi. Se invece consideriamo la spesa pro capite per la cultura in Italia è di 25,4 euro all’anno, esattamente la metà di quella della Grecia che impegna 50 euro.
Nell’«economia della cultura» non ci sono solo i beni culturali, ma anche i fondi destinati al finanziamento dello spettacolo: teatro, cinema, danza, musica e lirica. Il dossier di Federculture descrive la cura dimagrante a cui Giulio Tremonti, ministro dell’Economia all’inizio della crisi, ha sottoposto il Fondo Unico dello Spettacolo (Fus). Il primo esecutore della volontà della Troika ha iniziato il ridimensionamento del Fus facendolo passare da 507 milioni nel 2003 ai 389,8 milioni di euro nel 2013, con un taglio del 23,1%. La stessa trovata di finanziare la cultura con il gioco d’azzardo gestito dallo Stato, decisione quanto mai simbolica presa quando Berlusconi era al governo, non sembra rappresentare più la soluzione: dal 2004 su questo capitolo le entrate sono crollate del 64%. Ma non di solo azzardo ha vissuto la cultura italiana. Il suo «sistema» è stato alimentato dalle iniziative degli enti locali. Anche qui la spending review ha colpito senza pietà. I fondi sono diminuiti nell’arco di un decennio di oltre 400 milioni di euro. A Roma, Milano, Firenze Bologna o Palermo la spesa per la cultura è scesa al 2,6% nel 2012. Nei piccoli e medi centri è crollata dal 5% al 3,6%. Ancora ieri molti auspicavano l’intervento salvifico dei «privati» per risollevare la cultura nazionale. Il dossier riserva un’amara sorpresa anche su questo punto. Complessivamente il finanziamento alla cultura da parte dei privati è sceso del 35% dal 2008 a oggi. Nel quadro generale di riduzione dei consumi, che poi è il cuore della recessione in atto insieme alla mancanza della domanda di lavoro, diminuisce anche la spesa delle famiglie per la cultura. Nel 2012 è stata di 68,9 miliardi di euro, oltre 3 in meno rispetto al 2011. Una situazione che ha spinto ieri Roberto Grossi, presidente di Federculture, a chiedere al ministro Massimo Bray e al suo collega al lavoro Enrico Giovannini «norme che soffocano la programmazione di enti e aziende». Praticamente l’abolizione della spending review. Il ministro Bray non ha replicato, ma ha tenuto a ribadire di non «essere passivo» alle linee del ministro dell’Economia Saccomanni. Al suo governo Bray ha chiesto di «fare scelte chiare» e «recuperare la centralità della cultura». Pochino, mentre Saccomanni ribadiva l’irreversibilità dei tagli. Per conto suo, Giovannini, ha segnalato l’utilità di far fare a 80 mila giovani meridionali un tirocinio formativo «nella cultura». Sulle assunzioni, non precarie, o sul rifinanziamento dei fondi non ha parlato. Una goccia nel mare dell’austerità.

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