Laurie Anderson è in auto diretta verso una piccola città di Long Island. Dal cellulare chiama un numero a Roma che risponde al primo squillo. È un sabato pomeriggio di fine maggio. Poco dopo la fine dell’intervista, sulla capitale scoppia un intenso nubifragio. Le chiedo un commento su quanto scrive Judith Butler nel saggio Perdita e rigenerazione. Ambiente, arte, politica (Marsilio) a proposito degli attivisti di Extinction Rebellion. Secondo la filosofa americana non si può scegliere tra arte e vita perché tra le funzioni dell’arte c’è quella di esprimere l’intollerabile, ad esempio la distruzione dell’ecosistema a causa dei cambiamenti climatici. Domani Laurie Anderson terrà l’unica data italiana al Ravenna Festival, in una città che l’alluvione dello scorso maggio rischiava di far diventare invisibile in un senso molto diverso dal romanzo di Italo Calvino, a cui l’edizione XXXIV della rassegna rende omaggio nel centenario dalla nascita. L’acqua è stata deviata sui campi che dovrebbero produrre cibo e la città, gli abitanti e l’immenso patrimonio artistico sono stati risparmiati. «L’arte può esprimere l’intollerabile, ma anche l’inevitabile, il bello, il misterioso, ciò che è difficile dire solo a parole», commenta Anderson.

«DA ARTISTA il mio compito è comunicare concetti complessi per i quali le parole sono insufficienti». Poi inizia a parlare di The Maniac, il nuovo libro di Benjamin Labatut, un autore che lei adora (in Italia uscirà per Adelphi il prossimo autunno). Uno degli argomenti di Quando abbiamo smesso di capire il mondo, il libro precedente, è l’enormità della distruzione che l’umanità è capace di infliggere al mondo, un concetto che forse il nostro cervello non è strutturato per concepire. Un altro, dice Anderson, è che «nessuno sa spiegare perché succedono le cose. Più importante dei cambiamenti climatici è cominciare a capire che cos’è la vita. In The Maniac Labatut parla dell’invenzione dell’intelligenza artificiale. Il linguaggio è un codice, carta e parole sono solo significanti, non rendono il suono, la sensazione di calore o freddezza che le cose emanano. Come artista ho molti “messaggi”, ma non li esplicito mai apertamente perché altrimenti scriverei un saggio, senza perdere tempo con colori, suoni, musica».
Pochi giorni dopo Anderson è su un aereo che da New York la porta a Barcellona per l’inizio del tour con Steven Bernstein e i Sex Mob. Il 5 giugno ha compiuto 76 anni. Altri venti e sarà come Herbert Blomstedt, il direttore d’orchestra svedese che a 96 anni continua a dirigere concerti in modo sublime. Mentre molti di noi contano gli anni e i mesi che mancano alla pensione, per Laurie e Herbert la vita è un flusso in cui scorrono vocazione, idee, progetti. Anderson ne ha molti: un’opera intitolata Ark, che debutterà a Manchester nel 2024 in cui – a proposito di alluvioni – reimmagina il diluvio universale come l’esplosione dell’iCloud, con tutto lo scibile umano che si riversa sulla terra come una pioggia incessante; un libro (quest’anno è già uscito The Art of the Straight Line, su Lou Reed e il tai chi), musica, un film; al Moderna di Stoccolma è in corso la mostra Looking Into A Mirror Sideways, mentre il nuovo tour è motivato dalla voglia di fare musica e stare con la gente: «È il modo migliore per produrre energia e di questi tempi ne abbiamo davvero bisogno. La pandemia ha separato le persone e ha lasciato un senso di urgenza, di dover recuperare il tempo perduto. Invece io voglio prendermela comoda».

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Laurie Anderson, il tempo delle storieLO SPETTACOLO si intitola Let X = X come una delle canzoni di Big Science, l’album d’esordio pubblicato nel 1982. «In matematica x indica l’incognita, sta per i concetti astratti, è un simbolo, può essere la democrazia, la libertà. In scaletta ci sono diverse canzoni che parlano della tragedia dei cambiamenti climatici e della distruzione del pianeta. È una storia molto difficile da raccontare perché è deprimente ripetere sempre le stesse cose. Una canzone parla proprio della ripetizione della tragedia: la reiterazione ce la fa sentire di più? In inglese si dice “preaching to the choir” quando si continua a parlare delle stesse cose con chi la pensa come noi. Io chiedo al pubblico di essere il coro: siamo tutti d’accordo, ma non sappiamo che fare, siamo paralizzati. La tecnologia dice di poter fermare le alluvioni e gli incendi. Io adoro la tecnologia, ma non credo che sia in grado di salvarci all’ultimo minuto.In scaletta brani sui cambiamenti climatici e la distruzione del pianeta

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Lou Reed e New York, una vita come una corrispondenzaSIAMO i primi esseri nella storia della Terra ad assistere alla fine del nostro ecosistema, a viverla sulla propria pelle e cercare di descriverla. Non credo che ci sia una via di uscita, ma il pessimismo non aiuta. Sono ottimista per una sola ragione: perché permette di vivere meglio. Credo che il motivo per cui esistiamo è essere felici, divertirci, guardare il mondo. Allora cerchiamo di aprire gli occhi, di percepire quello che accade. Il mio maestro buddista dice: impara a sentire la tristezza senza diventare triste. È una distinzione molto utile, perché al mondo ci sono molte cose tristi e se fai finta di ignorarle, sei un idiota, ma non bisogna assolutamente diventare tristi. È la cosa più importante che voglio comunicare nello show. Nelle storie che racconto, non voglio essere profeta di sciagure: il mondo è avviato verso la catastrofe ma è pur sempre un luogo di gioia, di bellezza, dove la gente può riunirsi per suonare dal vivo, che è un’esperienza positiva e crea un senso di comunità. Ne abbiamo bisogno in quanto specie in via di estinzione, altrimenti dovremmo tornare a vivere nella nostra caverna da soli a piangere: non serve a niente e non è nemmeno divertente».Siamo i primi esseri nella storia della Terra ad assistere alla fine del nostro ecosistema, a vivere questa tragedia sulla propria pelle e a cercare di descriverla

Per sottolineare la follia dei tempi, mi dice una battuta che ha appena sentito: che cosa vuoi prima, le buone notizie, le cattive notizie o le fake news? «Non sappiamo più che cosa è vero e che cosa è falso. Questa condizione di sogno-realtà è una delle cose che cerco di evocare nello spettacolo. È un tema molto presente nelle storie-canzoni del concerto».
Trump 2024 è tremendamente vero, però. «Per quanto io sia angosciata da Trump, la diffusione delle armi mi preoccupa molto di più. È il problema più grande negli Stati uniti ed è sempre peggio. Ci sono molte persone che lottano contro questa situazione, ma il Paese è molto diviso. Sono cresciuta in un’America in cui non c’era molta differenza tra repubblicani e democratici. Oggi la contrapposizione è maggiore e io la attribuisco alla capacità di manipolare le persone attraverso i media. Osservo la gente ai comizi di Trump e sembrano felici. Lui è un pagliaccio idiota e irresponsabile, una scheggia impazzita, è il predicatore che dice “sono libero, e anche voi potete essere liberi”. Tutti pensano che sia un gran bel messaggio, e in effetti lo è. “Faccio tutto quello che voglio, è il modo americano di essere liberi, non seguo le regole”, e i suoi sostenitori rispondono “Nemmeno noi!”. Trump fa presa sul bambino selvaggio che è in loro in un’epoca in cui tutti si sentono intrappolati».