Landseer e la levriera gentildonna
Animal House, Ottocento inglese: il cane di Edwin Landseer Sagoma lucida e nera, occhio umido, la femmina di cane Eos era giunta a Londra nel 1840, al seguito del Principe Alberto che andava sposo a Vittoria. Il pittore, presto Sir, la immortalò magistralmente, antropomorfizzando, con spirito da narratore come in una «conversation piece»
Animal House, Ottocento inglese: il cane di Edwin Landseer Sagoma lucida e nera, occhio umido, la femmina di cane Eos era giunta a Londra nel 1840, al seguito del Principe Alberto che andava sposo a Vittoria. Il pittore, presto Sir, la immortalò magistralmente, antropomorfizzando, con spirito da narratore come in una «conversation piece»
Il nome di Eos, dea dell’Aurora figlia del titano Iperione e discendente di Urano, era anche quello della femmina di levriero studiata in disegni e ritratta molte volte dal pittore Edwin Landseer. Nella sua immagine più celebre la scelta dei colori è studiata con cura: la sagoma lucida e nera, con zampe, punta della coda, parte del muso e petto candidi, ha la stessa bicromia del pavimento ma in proporzioni rovesciate, la stessa del cappello a cilindro coi guanti immacolati. Questi ultimi attributi alludono all’uomo alla moda, una natura morta dell’‘assente’, che l’animale guarda con occhio umido. Da sfondo, un drappo che copre il tavolo, di un rosso regale.
Nel 1840, a sei anni, Eos era arrivata a Londra con il Principe Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha, che andava sposo a Vittoria del Regno Unito, e gli rimase al fianco altri quattro anni durante i quali fu ritratta molte volte non solo da Landseer ma anche da pittori meno dotati che le diedero un aspetto più convenzionale. In un altro celebre ritratto di Eos, che infila cauto il muso fra i piedi paffuti della neonata primogenita della coppia reale, Landseer compose una scenetta sentimentale in cui dimostra la sua capacità di umanizzare lo sguardo e le attitudini degli animali, un dono che all’epoca solo lui possedeva.
Quando Heinrich Füssli non trovava il giovane Landseer nelle aule della scuola annessa alla Royal Academy di Londra chiedeva «where is my little dog boy?». Edwin Landseer (1802-’73), già quindicenne si era fatto conoscere per la destrezza nel disegno di animali ed era adulato dai maestri: fra questi Robert Benjamin Haydon, pittore meno dotato di Füssli ma docente generoso anche se di pessimo umore, entusiasta del pupillo fin quando questi rimase tale, per poi odiarlo con tutto se stesso allorché raggiunse il successo che a lui non era toccato. Ma il piccolo talento usciva ben corazzato contro i caratteri rabbiosi: il padre, John, era un incisore di una certa reputazione e di una collera polemica, sordo come una campana e armato di un enorme cornetto che brandiva contro le vittime delle sue ire. Anche lui, però, maestro attento della prole, che fruttò non solo Edwin ma altri artisti di un certo rispetto. Dalla madre il giovanetto trasse invece l’avvenenza: nonostante la scarsa statura, venne sempre considerato bello – occhi glauchi e boccoli dorati. Lo si vede, angelico, in farsetto e calzamaglia, in un dipinto di C.R. Leslie ispirato a un episodio della Guerra delle Rose, l’Assassinio di Rutland. Il problema di quella famiglia bizzarra e a modo suo felice era uno solo, i maschi non erano considerati dei gentlemen. Il rimedio fu Edwin.
Dipingere cani e cavalli consentiva in maniera facile di fare soldi e contemporaneamente di propiziarsi l’aristocrazia britannica. Fra i primi clienti Landseer ebbe l’onore di contare il Marchese di Lansdowne e Lord Beaumont: era solo sedicenne, due anni più tardi annotò nel proprio diario di aver guadagnato in un anno mille sterline, e a ventidue anni venne inviato in Scozia, a Blair Castle, dal Duca di Atholl. Si innamorò subito di quella terra, degli spazi infiniti, della natura animale e vegetale, delle ossessioni venatorie dei suoi abitanti aristocratici, della fedeltà cocciuta della popolazione e di Sir Walter Scott con le sue storie di passioni, castelli, armature e bufere notturne. Si incontrarono, si piacquero: il pittore ne fece il ritratto, lo scrittore annotò con indifferenza l’occasione ma poi lo chiamò per illustrare alcune delle sue interminabili e tempestose Waverley’s Novels. Contemporaneamente i suoi clienti furono entusiasti della sua compagnia perché era un giocoliere della conversazione, pettegolo, arguto, discretamente colto, vanitoso e snob all’occorrenza, e poi amava cacciare e pescare. Nelle buie serate di novembre trascorse nei manieri dalle pareti foderate di armi e corna di cervo si rivelava un indispensabile teatrante che vestiva gli attori, truccava le attrici dilettanti, e intrecciava flirt leggeri, il più discusso con la duchessa di Bedford. Da allora in poi Landseer non mancò di trascorrere almeno un mese all’anno nelle più importanti case di quella terra.
Il Duca di Atholl e i suoi pari volevano dipinti con bestie e scene di caccia, e a quell’età Landseer aveva ancora due modelli del passato: i grovigli fiamminghi, fra Rubens e Snyders, con il convulso contorcimento di corpi animali e umani, e insieme il loro opposto, rappresentato dalla azzimata anatomia settecentesca, alla George Stubbs, colui che aveva iniziato ad antropomorfizzare le bestie facendone soggetti sociali più che naturalistici, in posa come baroni. A queste due ispirazioni Landseer aggiungeva però uno spirito narrativo quasi da illustratore, esibendo gli animali in scenette di genere come se si trattasse di gruppi di famiglia, conversation piece fatte di bestie.
Le sue scene di caccia nelle Highlands assumevano nel contempo una nota elegiaca. In un orizzonte infinito, il silenzio paziente dei ghillies e degli stalkers (coloro a cui spetta guidare e scovare) compongono narrazioni epiche che parlano di un popolo di cacciatori misteriosamente assorto di fronte alla grandezza sovrumana della natura e alla maestosità delle prede riverse sul dorso dei cavalli. Spira, col vento che smuove il pelo ispido dei deerhounds, la malinconia di certi versi del contemporaneo Tennyson, «deliziosamente malsani», come li ha definiti Harold Bloom.
La prima commissione per la corte risale al 1836, un anno prima che Vittoria salisse al trono, ed è un piccolo olio con il muso dello spaniel preferito della principessa, Dash. La proprietaria della bestia ne fu estasiata e da allora Landseer fu alle prese con lo zoo domestico di colei che era ormai la regina, un serraglio consistente in svariati cani e pappagalli. Poi, nel 1840, arrivarono Alberto ed Eos. Il primo ritratto dell’amata creatura del Principe Consorte dovette essere quello in Windsor Castle in modern times, in cui la coppia reale compare idillicamente circondata da bestie vive, una figlia e pennuti ammazzati. L’irresistibile attrazione che la caccia esercitava sul pittore trovò una perfetta corrispondenza nell’animo dei reali, che scoprirono la Scozia nel 1842 e affittarono (per poi comprare e ingrandire) il castello di Balmoral nel 1848. I cervi morti si moltiplicarono, sia sulle tele di Landseer sia nelle battute del prode Alberto, che coi loro denti fece fare gioielli per la consorte; lei portava quegli orpelli sinistri in privato, abbinandoli a spille con molari dei propri figli.
Nel 1850 a Landseer venne conferito il titolo di Sir ma la fiducia fra il cortigiano e la regina era velata da ombre: lei si lamentava dei suoi costi e della lentezza, lui la definiva an incovenient treasure. Si separarono all’arrivo di un cortigiano alla moda, il tedesco Franz Xaver Winterhalter, egregio ritrattista di umani coronati, per ritrovarsi più in là negli anni, lei vedova inconsolabile, lui ipocondriaco. Dalla metà del secolo il legame di Landseer con la Scozia era divenuto ancora più intenso e di un carattere più sentimentale. Iniziò un’accorata descrizione di animali vivi, potenti, padroni di quella terra solitaria e selvatica in cui l’uomo sembra non aver posto. Il cervo a dodici punte, The Monarch of the Glen, forse il suo quadro più famoso, solo nel suo regno, ha un’espressione di sublime regalità che nessuno dei principi di Winterhalter ha mai espresso. Finì i suoi giorni in uno stato di semifollia, cinque anni dopo la collocazione dei leoni sulla base della colonna in Trafalgar Square, che gli erano costati una fatica immensa costellata di episodi incresciosi alla ricerca del modello giusto e che lo avevano costretto a disegnare le zampe esemplandole su quelle di un gatto.
Eos era morto nel 1844: la sua immagine contro il drappo rosso era servita anni prima per la fusione di un complicato centrotavola in argento dorato, poi di un maestoso bronzo a grandezza naturale posto sulla sua tomba a Windsor.
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