Torna dopo settant’anni di assenza al Teatro alla Scala di Milano L’amore dei tre re di Italo Montemezzi (con libretto di Sem Benelli), che peraltro sullo stesso palcoscenico ha avuto la sua prima assoluta centodieci anni fa. Nel 1913 a dirigere il debutto fu Tullio Serafin, mentre Arturo Toscanini, che assistette a quello spettacolo, lo portò l’anno successivo al Metropolitan di New York. Fu un successo sia al di qua che al di là dell’oceano, ma se negli Stati uniti l’opera entrò a far parte del repertorio stabile dei teatri, in Europa non ebbe la stessa sorte e perfino alla Scala, dopo una memorabile ripresa di Victor De Sabata nel 1953, se ne è persa la memoria.

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Tra armonie wagneriane e strepiti veristi «Francesca da Rimini»MERITO dunque del sovrintendente Dominique Meyer e del direttore musicale Riccardo Chailly averne messo in cartellone un doveroso recupero, che si inserisce in una cornice di rispolvero progressivo dell’opera italiana meno nota di inizio Novecento: si pensi a La cena delle beffe di Umberto Giordano (il libretto è ancora di Benelli) del 2016 e a Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai (il libretto è tratto dall’omonima tragedia di Gabriele D’Annunzio) del 2018. Con quest’ultima opera L’amore dei tre re condivide, oltre ai turgori poetici di matrice dannunziana, che coniugano sentimentalismo esasperato ed erotismo palese, arcaismi lessicali e arditezze sinestetiche, anche l’ambientazione in un medioevo che ha lo stesso sapore nostalgico e archeologico del neogotico e del neoromanico della contemporanea architettura liberty, con un gusto particolare per le decorazioni floreali: non a caso la protagonista si chiama Fiora; suo marito, Manfredo, la chiama «piccolo fiore»; l’amante Avito la chiama «rosaio», «fascio di fiori soavissimi».

L’ALLESTIMENTO scaligero attuale, curato da Àlex Ollé de La Fura Dels Baus, con le scene di Alfons Flores, i costumi di Lluc Castells e le luci di Marco Filibeck, azzera ogni riferimento all’immaginario decadente costringendo la storia in uno spazio astratto e buio scandito da centinaia di catene che pendono dall’alto: nessuna concessione alle seduzioni visive del colore locale e allo stesso tempo poca attenzione alla mimica dei sentimenti e alla «psicologia» dei personaggi, la seconda delle quali, presupposta l’astrattezza del libretto di Benelli, avrebbe certamente giovato alla drammaturgia dell’opera e alla resa dello spettacolo. La direzione di Pinchas Steinberg consente invece allo spettatore di avventurarsi senza perdersi tra i preziosismi della partitura di Montemezzi, gustando le magniloquenze wagneriane, le rarefazioni debussiane e persino qualche reminiscenza verdiana (come quella dei duetti amorosi di Aida nel duetto Fiora/Avito del secondo atto). Intensa e ben calibrata Chiara Isotton nel ruolo di Fiora; bronzeo e implacabile Evgeny Stavinsky in quello di Archibaldo; aitante e seduttivo Giorgio Berrugi in quello di Avito; disperatamente dolce il Manfredo di Roman Burdenko.