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Tra armonie wagneriane e strepiti veristi «Francesca da Rimini»

Tra armonie wagneriane e strepiti veristi «Francesca da Rimini»Una scena da «Francesca da Rimini» – foto di Brescia & Amisano

Opera Fabio Luisi dirige l'opera di Zandonal che ritorna sul palcoscenico scaligero dopo sessant'anni. Repliche fino al 13 maggio.

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 28 aprile 2018

Dopo quasi 60 anni di assenza, torna al Teatro alla Scala di Milano Francesca da Rimini (1915) di Riccardo Zandonai, tratta dall’omonima tragedia di argomento dantesco di Gabriele d’Annunzio. La ripresa si inscrive in un doppio progetto culturale: quello locale scaligero, nel palinsesto «Novecento Italiano» del Comune di Milano, di esplorazione del repertorio italiano tra verismo e nuove tendenze (si pensi a La fanciulla del West, La cena delle beffe, Madama Butterfly e Andrea Chénier date negli ultimi due anni) e quello nazionale di celebrazione dei 700 anni dalla morte di Dante, in occasione dell’insediamento del Comitato Nazionale che opererà fino al 2021.

Si tratta di un’occasione ghiotta, dunque, per riscoprire non solo un titolo ingiustamente trascurato, all’altezza di quelli assai più frequentati di Puccini e di capolavori d’oltralpe come Pelléas et Mélisande di Debussy e Salome di Strauss, ma anche la forza d’epoca del brand D’Annunzio, che impazzava, oltre che nel mondo dell’opera (La figlia di Iorio di Franchetti, Parisina di Mascagni, Fedra di Pizzetti e Le martyre de Saint Sébastien di Debussy), in quello nascente del cinema (oltre a Francesca da Rimini, già portata sul grande schermo due volte, La figlia di Jorio, L’innocente, La nave, La Gioconda e soprattutto Cabiria). Fabio Luisi dirige con una ricchezza e un’energia straordinarie: non una preziosità armonica wagneriana, che probabilmente arrivava al compositore anche attraverso i gusti del Vate, non una spinta sensuale straussiana, non una tentazione esotica pucciniana, non uno strepito verista, non un moto di adesione nostalgica ai moduli del melodramma romantico e soprattutto non un dettaglio della musica atmosferica di Zandonai vanno persi nella lettura di questo concertatore finissimo, che speriamo di vedere più spesso sul podio scaligero. Maria José Siri, che alla Scala ha trionfato come Madama Butterfly nel 2016, si conferma come eccellente soprano lirico, dalla voce voluminosa e omogenea, dall’emissione impeccabile, dal fraseggio sempre pensato, ed è in grado di sostenere su di sé un’opera vocalmente onerosissima, scolpendo una Francesca memorabile.

Generosa la controparte maschile: Marcelo Puente, che ha sostenuto la stessa parte all’Opéra National du Rhin, dà a Paolo il Bello una voce dal timbro interessante ma ancora tecnicamente incerta; potenti e spavaldi sono Gabriele Viviani nei panni di Giovanni lo sciancato e Luciano Ganci in quelli di Malatestino, a meno di qualche imprecisione nell’emissione e nell’intonazione in acuto. Piuttosto mediocri le comprimarie femminili.

L’allestimento, nuovo, vede David Pountney alla regia, Leslie Travers alle scene, Marie-Jeanne Lecca ai costumi e Fabrice Kebour alle luci: attraverso un’enorme struttura cilindrica rotante che all’interno rappresenta la stanza di Francesca (in cui troneggia una statua femminile alta sei metri) e all’esterno, con una struttura metallica fitta di cannoni, una fortificazione bellica, gioca sulla polarità sensualismo-eroismo tanto cara a D’Annunzio. Repliche fino al 15 maggio.

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