Tra le molte e contrapposte visioni e posizioni che animano il dibattito attuale sui rapporti tra natura, cultura, paesaggio e progetto di paesaggio, il recente volume di Annalisa Metta Il paesaggio è un mostro. Città selvatiche e nature ibride (DeriveApprodi, pp. 224, euro 18) dà forma a un percorso originale, aperto e volutamente dialettico.

L’autrice qui riprende un ragionamento sul ruolo del selvatico in ambiente urbano già intrapreso prima della pandemia (Wild and the City. Landscape Architecture for Lush Urbanism, scritto con Maria Livia Olivetti nel 2019), per estenderlo e dargli complessità verso margini più dilatati. Nel definire il paesaggio come un mostro duale, come esatta trasposizione e riflesso dei caratteri non pacificati delle società che lo determina, ci sono almeno una provocazione e una sfida. La provocazione evidente consiste nel ribaltamento del luogo comune che vede in ogni azione di/sul paesaggio un contenuto salvifico, per essere riletto invece in chiave antinomica. La sfida riguarda il lettore, nel costruire un proprio percorso nella trattazione e un posizionamento, misurando vicinanza o distanza rispetto alle traiettorie definite nel libro.

LA SCRITTURA è a tratti molto dotta e destinata agli addetti ai lavori, in altri invece ricerca i tenori della divulgazione e dell’esortazione all’azione. Queste alternanze accompagnano una colta navigazione all’interno di discipline diverse, ricercando altre matrici di senso rispetto alla formazione del sentire comune su alcuni temi, molto al di là delle focalizzazioni sull’architettura del paesaggio. C’è una ricchezza di riferimenti tra i più diversi, che talvolta stordisce, e che segue quasi una religione della ricostruzione delle relazioni tra parole e forme del pensiero, con la quale Metta compone una sequenza di opere e rimandi, tanto estesa quanto non priva di attente esclusioni.

Adottare la chiave della «mostruosità», per il paesaggio quanto per i suoi attori, permette di dar corpo a forme di responsabilità politica del fare paesaggio. Responsabilità opposte, per azioni non sempre svolte con profondità critica, che coinvolgono sia contesti e paesi che risultano più attivi e innovativi, o all’opposto quelli più statici, in cui prevalgono discorsi di tutela e salvaguardia.

Rispetto a questo, il tratto che si rileva come di maggior interesse è il tentativo di superamento di alcune posizioni consolidate di quella che può esser definita come ecologia classica e di alcuni assiomi spesso replicati acriticamente, mostrandoci quanto questi non siano affatto esenti da risvolti politici, che richiedono invece anche letture diverse. Ad esempio riprendendo il dibattito che anima gli addetti ai lavori almeno dall’inizio degli anni Novanta, proprio citando quel Clément, botanico prima che paesaggista, che sfidava sullo stesso terreno e con gli stessi strumenti conoscitivi quello che è il cuore più consolidato delle discipline botaniche ed ecologiche.

UN DIBATTITO che evidenzia chiaramente come la mera difesa di un’ipotetica fissità dei sistemi di paesaggio sia spesso più funzionale e riduzionista che culturale e coevoluzionista, e possa paradossalmente porsi con dei connotati incompatibili con le trasformazioni delle società e con i cambiamenti del globo nella sua interezza, che forse richiedono appunto nature ibride e adattive più che steccati ambientali.

Il libro è quindi forse esso stesso un mostro, proprio nell’accezione dell’autrice. Segue l’intento di innescare dei dubbi su alcuni luoghi comuni, siano esse le forme di pensiero semplificato ed efficentista o su alcune tendenze o mode spesso ripercorse con superficialità. Dov’è la finzione, l’ideologia all’interno delle diverse narrazioni del progetto? E, se necessario, dove schierarsi?
Anche l’apparato iconografico finale è volutamente duale e provocatorio. Quale legame di senso tra la modernità delle forme più cartesiane e dure e la postmodernità della scomparsa apparente del progetto, se non quella della complessità delle risposte a richieste mutevoli?

E in un periodo di nuove guerre, che ci mostrano paesaggi devastati e inversioni di senso dei luoghi, come non dire che appunto il paesaggio è luogo di conflitti per eccellenza?