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L’altra metà del seggio

L’altra metà del seggioDonne in Arabia saudita – Reuters

Arabia saudita Ieri le donne saudite hanno votato per la prima volta: 130mila pioniere alle urne, quasi mille candidate. Tra restrizioni, ostacoli e segregazione di genere: la battaglia per la democrazia non termina con le elezioni

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 13 dicembre 2015

Scortate in auto da un uomo, in fila in seggi separati da quelli maschili: palesi restrizioni in una giornata che resta comunque un momento storico. Per la prima volta l’Arabia saudita – ultimo Stato al mondo, eccezion fatta per il Vaticano – ha riconosciuto il diritto di voto alle donne, elettorato attivo e passivo. Le donne saudite sono da oggi elettrici e candidate.

Paese ultra conservatore, fondato su un sistema discriminatorio legalizzato, giustificato con una surreale applicazione della Shari’a (la legge islamica) e mascherato dall’opulenza di grattacieli e centri commerciali, Riyadh ieri ha visto schede elettorali compilate da donne scivolare dentro le urne per le elezioni municipali. «Ho pianto – ha detto entusiasta Awatef Marzooq al cronista dell’Afp – Lo avevamo visto solo in tv accadere in altri paesi».

Facebook e Twitter hanno fatto da palcoscenico alla gioia delle saudite: ieri si moltiplicavano le foto pubblicate online con la scheda elettorale tra le dita. Stavolta è toccato a loro, cittadine di serie B nella petromonarchia più potente del Golfo, alleato di comodo di un Occidente che affronta la questione dei diritti umani con doppi e tripli standard. Un passo in avanti ma tanta strada da compiere, non solo a livello politico ma culturale: poche pioniere si sono presentate nei seggi segregati, così che uomini e donne non si ritrovassero nello stesso posto. Fuori brevi file, non di donne a piedi, ma di auto guidate da mariti o parenti, che le hanno accompagnate ad esercitare il proprio diritto.

Primo ostacolo: gli uomini di casa dovevano prima accettare la novità. Così il seggio, per molte donne, è rimasto irraggiungibile. Le più fortunate e coraggiose hanno avuto dalla loro il relativo liberalismo delle famiglie: «Vogliamo rompere questa barriera – diceva Mohammed al-Shammari, mentre portava la figlia a votare – Finché non si mescola con gli uomini, cosa le impedisce di farlo? Sosteniamo tutto quello che non viola la Shari’a».

Secondo ostacolo: la registrazione nelle liste elettorali. Burocrazia, scarsa trasparenza sul procedimento e l’impossibilità di registrarsi da sole (di nuovo, solo un uomo poteva farne le veci) hanno ridotto significativamente il numero delle votanti. Il bilancio parla da sé: meno del 10% degli iscritti sono donne, 130mila su un milione e mezzo, percentuale bassissima in un paese che conta 28 milioni di abitanti.

Vita più facile non l’hanno avuta le 978 candidate, che si contendono con 6mila avversari maschi 2.100 seggi comunali. Immaginate una campagna elettorale a distanza: le donne non potevano presentarsi in luoghi pubblici dove rivolgersi direttamente agli elettori. Unica breccia verso l’esterno è internet (siti dove pubblicare i programmi e social network dove rilanciarli) e il sempreverde lavoro sul vicinato: alcune candidate hanno provato con kebab e popcorn, offerti nelle tende montate nei propri quartieri per attirare potenziali elettrici; se si trattava di potenziali elettori, uomini le rappresentavano.

Le temerarie candidate non si illudono ma manifestano ottimismo: «Non corro per vincere. Ho già vinto correndo», dice la pediatra 60enne Amal Badreldin al-Sawari, intervistata a Riyadh dall’Afp. «Non considero vincere l’obiettivo finale – le fa eco sul The Guardian Hatoon al-Fassi, coordinatrice della Saudi Baladi Initiative, impegnata nell’incremento della partecipazione politica femminile – Guardiamo a questo giorno come ad un’opportunità per fare ulteriori pressioni».

Se qualcuna di loro vincerà si apriranno nuove sfide. Riunioni comunali separate tra consiglieri uomini e donne come accade da un paio di anni al Consiglio della Shura? Un’effettiva partecipazione femminile alla vita amministrativa e politica? Ieri si è votato (dopo l’apertura di re Abdullah che nel 2011 promise il voto alle donne nel 2015), ma democrazia non significa solo scrivere un nome su una scheda elettorale. Democrazia è uguaglianza, parità di opportunità, assenza di discriminazioni. L’Arabia saudita non conosce la democrazia quando soffoca le voci critiche e le punisce con la vita; quando sfrutta il lavoro dei migranti, moderni schiavi; quando impone i propri interessi con la guerra. E quando mantiene le donne un gradino più in basso degli uomini, anche loro cittadini-sudditi di una monarchia assoluta.

Le donne non possono aprire un conto corrente senza il permesso di un uomo, non possono uscire di casa né viaggiare autonomamente se non accompagnate da un “guardiano”, non possono mettersi alla guida di un’auto (divieto sfidato da attiviste che hanno pagato con la prigione). In buona parte di edifici pubblici e case private gli ingressi per uomini e donne sono separati, così come mezzi di trasporto, giardini e spiagge. Non possono sposarsi né divorziare senza il sì del guardiano. Sebbene siano il 48% dei laureati, rappresentano il 18% della forza lavoro, secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Il cui rapporto però tiene conto anche delle lavoratrici straniere: il tasso di occupazione delle saudite crolla così al 6,1%.

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