Quaranta scatti degli anni ‘70, l’Africa di Mario Dondero; una selezione dall’immenso archivio di un grande reporter, un intellettuale e un militante internazionalista con la macchina fotografica. Intitolata «La culla dell’Umanità», la mostra – voluta dagli operatori dei progetti Sprar e curata dalla Fototeca provinciale, che gestisce l’Archivio del fotografo, con la collaborazione della sua compagna, Laura Strappa, e del Comitato “5 Luglio” – sarà esposta, a Fermo alla Sala Incontri, dal 20 giugno (Giornata internazionale del Rifugiato), fino al 5 luglio, primo anniversario dell’uccisione, in quella città, del giovane nigeriano Emmanuel Chidi Nnamdi.

PROPRIO QUEL GIORNO si svolgerà una manifestazione contro il razzismo e per l’accoglienza, cui hanno aderito tante realtà fermane, marchigiane e nazionali (tra cui questo giornale). Si tratta, tra l’altro, di una tappa del percorso di avvicinamento al 5 luglio (dopo, ad esempio, la mostra delle vignette di Mauro Biani) messo in campo affinché quanto accaduto lo scorso anno non venga dimenticato o derubricato, ma costituisca un’occasione di riflessione e di reazione civile al clima, sempre più preoccupante, di natura xenofoba e razzista diffuso in tutto il Paese ed anche in una città di solide radici democratiche come Fermo.

La Torre Agadez (Niger 1978) - di Mario Dondero
La Torre Agadez (Niger 1978) – di Mario Dondero

Conoscere la culla della nostra vita, e di tutte le civiltà umane; vederla con lo sguardo leggero e profondo di un uomo che amava la vita e stava irreversibilmente dalla parte dei più deboli; è stata questa la volontà degli operatori Sprar (il progetto di Fermo si chiama, significativamente, «Era domani»), insieme ai tanti incontri nelle scuole e nei quartieri. Conoscere per superare il pregiudizio dell’allarmismo e la banalità che nasconde le storie e le persone. Per la stessa ragione, all’inaugurazione Valerio Calzolaio (autore, con Telmo Pievani, di Libertà di migrare) analizzerà i dati relativi ai Global trends forced displacement.

L’INTRODUZIONE alla mostra coglie perfettamente il senso di questa convergenza tra le immagini di Dondero e il lavoro di chi concepisce l’accoglienza come un incontro profondo: «Quella “vita che scorre per tutti” che è stato il grande tema della fotografia di Mario Dondero: i mercati, le famiglie, i bambini, il lavoro, la festa. Quella vita che diventa impossibile nella guerra, nelle carestie, nei disastri ecologici, nelle dittature sanguinose che hanno segnato la storia africana e che tuttora la segnano. E che obbliga a partire, a migrare, a lasciare la casa. Queste fotografie ritraggono la vita delle persone nei loro luoghi, all’interno delle loro culture. La vita possibile quando c’è la pace».

Nel suo taccuino di viaggio, Frantz Fanon annota: «Il sole è ancora molto alto nel cielo e se premi l’orecchio contro la terra rossa avverti distintamente rumori di catene arrugginite, sospiri di angoscia, e ti cascano le braccia tanto presente è sempre la carne dolorante in questo mezzogiorno massacrante». Sembrerebbe, a uno sguardo superficiale, una percezione molto distante dalle fotografie di questa mostra; in realtà, invece, gli scatti di Mario sono come la terra rossa di Fanon: basta poggiarci l’orecchio, basta guardare con attenzione per sentire lo straordinario della storia emergere dall’ordinario della vita quotidiana.

CI SONO REPORTAGE che si appiattiscono sul presente della cronaca, o che esauriscono nella sensazione immediata la loro energia; quelli di Dondero – per la natura dell’uomo, per il suo rapporto con la fotografia e per le sue finalità – appartengono a un altro genere, spingono all’interrogazione critica, all’identificazione umana; scavando la superficie della quotidianità cercano la vita, che per gli uomini è sempre la loro storia. Di questa identità, l’autore – marxianamente e istintivamente – è sempre stato consapevole, lontano anni luce dal rischio del pedagogismo o, peggio, della retorica.

In questo interrogare – con curiosa e solidale partecipazione – l’umanità viva dell’Africa, che lavora, che studia, che gioca e che in ciò si batte per la propria dignità e costruisce (erano gli anni ’70) la coscienza dei propri diritti negati, queste foto chiamano in causa le coscienze dell’oggi, di fronte a un mondo con un’origine e un destino comune, in cui nessuna fortezza, nessun muro può «proteggere» il nord dalla responsabilità dei disastri prodotti a sud, nessuna grigia rimozione può cancellare la realtà delle ingiustizie, di ieri e di oggi.

A MARIO PIACEVA molto la Prefazione di Sartre a un altro fondamentale testo di Fanon; per questo e perché sono terribilmente attuali, vale la pena ricordare le parole del filosofo francese: «Le bocche s’aprirono da sole; le voci gialle e nere parlavano ancora del nostro umanesimo, ma era per rimproverarci la nostra inumanità».

Quell’inumanità contro cui si manifesterà, a Fermo; il 5 luglio non poteva avere un prologo più significativo.