I giorni del maestro e del bandoneon
Musica «Garofani rossi» è il cd che Daniele di Bonaventura ha voluto dedicare a Mario Dondero, dove riscrive celebri canti di lotta. E recupera «El quinto regimiento» sulla Guerra di Spagna, un’altra ossessione del grande fotografo
Musica «Garofani rossi» è il cd che Daniele di Bonaventura ha voluto dedicare a Mario Dondero, dove riscrive celebri canti di lotta. E recupera «El quinto regimiento» sulla Guerra di Spagna, un’altra ossessione del grande fotografo
Il 16 dicembre del 2015, alla fine della lunga cerimonia laica e affettuosa dei funerali di Mario Dondero, tenutasi nella Sala dei Ritratti di Fermo, Daniele di Bonaventura si avvicinò alla bara, inginocchiandosi, imbracciando il suo bandoneon, e con commossa devozione, discreta lentezza, iniziò a battere i tasti dello strumento e a intonare le note dell’Internazionale.
Fu un momento intensissimo, che sembrava un addio a quello che per molti di noi è stato un maestro e una leggenda, della fotografia e della vita, che proprio questo nostro giornale definì in uno dei suoi titoli memorabili «il partigiano dell’umanità». Forse il musicista fermano in quel momento non poteva pensare che a due anni di distanza, dopo molte ricerche e nuovi arrangiamenti, sollecitato dal festival tedesco «Wege durch das Land» – Literatur- & Musikfest in Ostwestfalen-Lippe di Detmold, dalla canzone che celebrava la Comune di Parigi, icona assoluta dei canti rivoluzionari internazionali, sarebbe nato un disco con un titolo, Garofani rossi (è autoprodotto, si può richiedere al sito www.danieledibonaventura.com), che Mario avrebbe trovato «gagliardo», oppure «formidabile», comunque sia utile alla lotta per una nuova umanità.
Quella missione nomadica da angelo della storia, come lo aveva definito lo scrittore Francesco Biamonti pensando a Benjamin, che lo aveva portato a raccontare la Storia in giro per il mondo con la passione civile del reportage, a Praga mentre imperversava la Primavera e a Berlino cadeva il Muro, nel Maggio francese, nel cuore dello scontro in rue Gay-Lussac, tra le barricate, al processo ad Alekos Panagulis nel Tribunale militare di Atene, a raccontare la vita, così come a fotografare la rivoluzione dei garofani in Portogallo, di cui una di quelle foto oggi è la copertina colorata di questo album.
Le canzoni erano un’altra sua passione, le intonava dopo cene e brindisi infiniti, erano anche loro «il collante delle relazioni umane», la colonna sonora della vita avrebbe detto, e tutti lì ad ascoltare rapiti Le foglie morte, oppure Fischia il vento, Bella ciao, le interpretava ai modi del suo amico Yves Montand, con l’enfasi giocosa da temerario di un altro amico francese, Philippe Leroy.
Daniele di Bonaventura gliele suonava spesso, e proprio agli inizi della lavorazione del disco, un giorno in cui stava assorto suonando il pianoforte si è trovato a pensare a Mario partigiano in Val d’Ossola, «Sesta Garibaldi» ricordava («sono andato in montagna perché mia madre nascondeva in casa degli ebrei ed ero indignato per questo, il fascismo per me è qualcosa di ignobile»), ha pensato così di dedicargli l’intero lavoro, «poi ho cercato la foto, quella della Rivoluzione dei garofani del 1974, perché Grandola vila morena è una canzone simbolo della rivoluzione. «È nato tutto spontaneamente – ricorda di Bonaventura, lui, uno spirito libero, rivoluzionario, ne sarebbe stato contento. E così il cerchio si è chiuso». Formazione classica, composizione al Conservatorio, studio del pianoforte e del violoncello, poi l’incontro con il bandoneon nel corso di un viaggio in Argentina al seguito di una orchestra, la scoperta della musica improvvisata e il corpo a corpo con uno strumento che ne ha fatto uno dei più originali musicisti italiani.
Dopo, collaborazioni con Enrico Rava, Sergio Cammariere, Ornella Vanoni, Oliver Lake, David Murray, e in particolare con Paolo Fresu, con il quale ha inciso numerosi dischi, come Mistico Mediterraneo per Ecm, e si è esibito nei festival e nei teatri più importanti del mondo, come alla Town Hall di New York, quando è salito sul palco storico dove hanno suonato Monk, Ellington, Stravinsky, Evans, Segovia e tanti altri giganti della musica: «lì mi sono inginocchiato e ho baciato per terra» ammette lasciandosi andare. Questo album l’ha registrato insieme al suo gruppo storico, la Band’Uniòn, Marcello Peghin, chitarra 10 corde, Felice Del Gaudio, contrabbasso, Alfredo Laviano, percussioni, incrocio colto di etno e jazz dalle sonorità mediterranee. Il repertorio riscrive alcuni classici, come Hasta siempre comandante, Bella ciao, Fischia il vento, L’internazionale, ma recupera anche El quinto regimiento, uno dei canti più struggenti celebri della Guerra di Spagna, un’altra ossessione di Mario Dondero, che sulle orme di Orwell, tornò a fotografare nei luoghi del miliziano Federico Borrell Garcia, un operaio tessile di ventiquattro anni, morto nella battaglia di Cerro Muriano, proprio nel momento dello scatto di Robert Capa», mito indiscusso della fotografia sociale.
Spogliata dalle parole e da ogni orpello retorico, queste musiche diventano più esistenzialistiche, ma non meno espressive, anzi persino più politiche perché dentro la trama profonda di un sentimento internazionalista che si rinnova nel mantice vivo del bandoneon, un ventre, una membrana capace di creare le melodie malinconicissime della passione umana.
«Quando le eseguo penso a quello che questa musica ha potuto rappresentare» dice Di Bonaventura, «quando suono El pueblo unido» mi viene la pelle d’oca», e Bella ciao secondo lui è fatta di una melodia semplicissima ma che riletta in un’altra chiave diventa come un’aria lirica, «potrebbe essere stata scritta anche da Puccini» sostiene. Lui ha riscoperto il valore musicale, ha rinnovato l’armonia di questi brani, «ho preso lo scheletro e l’ho rivestito in modo diverso, sono intervenuto anche ritmicamente, così le ho metabolizzate e adesso è come se le avessi scritte io, ma anche in funzione del sound del mio gruppo».
Quando Daniele di Bonaventura e Mario Dondero si incontravano, a Fermo oppure a Parigi, era una specie di rito che si ripeteva, «io tiravo fuori lo strumento, mi mettevo a suonare, e lui cantava, gli piaceva moltissimo Estate di Bruno Martino, potevamo andare avanti per ore». Se erano melodiche le sussurrava compenetrato, chiudendo gli occhi, quelle di lotta e di guerra invece il Maestro preferiva intonarle in modo cameratesco, alzando il pugno con enfasi, e con rabbia gentile.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento