Quanto si lega la produzione alimentare con la crisi climatica, l’emergenza sanitaria, la crisi bellica e le diaspore?
Sono strettamente interconnesse le une con l’altra: ci mettono inesorabilmente di fronte alla necessità di ripensare i modelli agricoli e produttivi vigenti.
E in questo contesto, ancora una volta, si conferma che sono sempre i più fragili a pagare il prezzo più alto: le donne, gli anziani, le fasce più povere e marginalizzate, quelle più colpite dalla crisi economica e sociale, gli ultimi tra gli ultimi: i migranti.

Da sempre la storia del cibo è legata alle migrazioni: molti tra i prodotti che oggi consideriamo autoctoni di un determinato luogo infatti, sono il frutto dello spostamento di donne e uomini; il movimento dei popoli è infatti un fenomeno che non si è mai arrestato.
Le ragioni che spingono i popoli a spostarsi sono molteplici, accomunate dal desiderio di migliorare o cambiare radicalmente le proprie condizioni di vita. Tra queste, due rivestono un ruolo sempre più importante: il cambiamento climatico e i conflitti per l’accesso alle risorse.

Secondo i dati della Banca Mondiale, il numero dei cosiddetti “migranti climatici” potrebbe sfiorare i 150 milioni entro il 2050: Il cambiamento climatico implica infatti un aumento delle temperature dovuto a pratiche umane: deforestazione massiccia, crescita incontrollata dei centri urbani, cementificazione dei suoli. E poi assistiamo ad una desertificazione incalzante per via di tecniche agronomiche che impoveriscono il suolo facendo perdere ogni anno milioni di tonnellate di suolo fertile. Inoltre dovremo sempre più fronteggiare la scarsità d’acqua: il rapporto delle Nazioni Unite sulle acque mondiali, 3,6 miliardi di persone sono prive di accesso all’acqua potabile, una cifra che potrebbe raggiungere i 6 miliardi nel 2050.

Tra le cause antropiche che spingono all’esodo di milioni di persone ci sono poi i conflitti armati legati all’accaparramento delle scarse risorse naturali: materie prime, energia ma anche terra e acqua. Secondo i dati rivelati dall’Environmental Justice Atlas (EJAtlas), sono più di 1500 i conflitti che riguardano l’accaparramento dei suoli, la gestione delle risorse idriche, la produzione di energie rinnovabili e i progetti estrattivi, dal 2010 ai giorni nostri.
Ed oggi che il conflitto è spaventosamente vicino e cruciale, Slow Food, e noi tutti, non possiamo non interrogarci sul sistema cibo, esplorare le interconnessioni che questo presenta con il contesto attuale e le ricadute sui popoli.

Il cibo infatti rappresenta il bagaglio culturale che i migranti portano con sé in forma di semi, ricette e tradizioni, arricchendo la biodiversità del territorio di destinazione.
Ma la pandemia ed il conflitto in corso hanno rivelato irrimediabilmente la misura in cui le persone migranti sono colpite in modo sproporzionato da disuguaglianze strutturali socio-economiche, di salute e di accesso ai diritti.
D’altronde ghetti e schiavitù, il caporalato, non sono fenomeni legati all’essere migranti o africani: il problema consiste nell’essere più o meno ricattabili. È molto significativo che prevalentemente una stessa tipologia di persone, cioè i migranti con documenti precari, vada a fare la raccolta del pomodoro o le consegne per multinazionali del food delivery: sono lavori scarsamente pagati ma facilmente accessibili, non è richiesto un documento di lungo periodo e non ci sono contratti stabili. La condizione di ricattabilità.

Per quanto riguarda la situazione dell’agricoltura la pandemia è stata rivelatrice: sono stati aperti ad hoc i cosiddetti “corridoi verdi”, si è esplicitata così l’idea strumentale dell’essere umano, non solo migrante: non c’è un muro tra il lavoratore migrante e quello italiano. La differenza è proprio il diverso grado di ricattabilità.
Questo ci convince che una vera transizione ecologica deve essere anche sociale, ammesso e non concesso che noi, oggi, ce l’abbiamo il tempo di transitare, di adeguarci, anche culturalmente, ad un percorso che dovrebbe prometterci un futuro, piuttosto che inficiarlo.

La transizione sembra un altro escamotage per spingere i limiti dell’accettabile un po’ più in là, mentre in effetti le industrie, le agroindustrie, valutano quanto ancora inquinare il pianeta, appropriarsi di risorse comuni, sfruttare i propri simili.
Allora il nostro cambiamento deve essere radicale e onesto, deve cioè mettere in discussione i due pilastri che non vengono mai messi in discussione: produzione e consumo. E forse non è la transizione la risposta, quanto piuttosto uno slancio “rivoluzionario” che metta in atto alcune rotture: esistenziali, filosofiche, epistemiche.

La produzione ed il consumo di cibo, che riguardano 7 mld di persone, entrano pienamente nelle riflessioni di cui sopra: questioni sulle quali dobbiamo agire con “radicalità”, laddove “radicalità” significa “comprendere i fatti alla radice”. Il Covid 19, adesso un conflitto spaventoso e vicino, hanno ulteriormente disgregato una società che già lo era: la paura diffusa dell’altro è ciò che dovremmo temere di più, il virus più pericoloso: una visione individualistica e competitiva della società… ora come mai prima.

Se esiste il concetto del “One Health”, cioè di un benessere unico che riguarda tutto il vivente, allora non possiamo pensare di salvarci noi se non curiamo anche i boschi, i fiumi, il mare, gli animali da allevamento, i selvatici, le montagne, le nostre città, ma anche gli ecosistemi e le comunità all’altro capo del mondo, se non curiamo la nostra umanità ed il nostro equilibrio individuale e collettivo.
One Health significa che ci salviamo davvero solo se ci salviamo tutti.

Slow Food, nel 2004, quando ha generato Terra Madre, si è aperta alla dimensione globale: oggi esiste in 160 paesi del mondo ed ha comunità africane cresciute intorno ai nostri orti, ha relazioni strette con indios del Sud America e comunità native del Nord America (la nostra rete indigeni), con allevatori di renne lapponi e casari mongoli, coltivatori afghani e allevatori ukraini.

Difendiamo il diritto ad un cibo buono pulito e giusto PER TUTTI: ed è in quel per tutti la ragione del nostro agire in tema di migrazioni.
Scrive Marino Niola, professore di antropologia all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli: «Se il contagio dell’altro è, infatti, la ragione del nostro malessere, il contatto con l’altro è, al contrario, la ragione del nostro benessere. Inseparabili come due gemelli siamesi, contatto e contagio, circolazione e infezione sono le due anime del sistema mondo».

* presidente di Slowfood Italia