La marcia turca non si ferma. La Turchia di Erdogan ha condotto in questi anni tre guerre: in Siria contro Assad, contro i curdi siriani del Rojava e contro i «suoi» curdi, con le armi vere e quelle della politica mettendo in carcere anche i dirigenti del partito Hdp. Da alcune settimane l’esercito della Turchia e i suoi mercenari jihadisti sono anche in Libia.

Una proiezione della strategia neo-ottomana di Erdogan che può apparire azzardata anche a un paese che ormai fa quello che vuole delle basi Nato sul suo territorio. Nessuno aveva mai osato tanto nella repubblica fondata da Ataturk, con l’eccezione dell’invasione di Cipro del 1974 in risposta al colpo di stato militare che aveva deposto il presidente, l’arcivescovo greco-ortodosso Makarios.

È in queste acque che la Francia di Macron, ai ferri corti con Erdogan, ha inviato le sue navi militari dove i turchi hanno cominciato le prospezioni proprio nell’area in cui la Total e l’Eni hanno le concessioni per il gas offshore di Cipro greca.

La marcia turca è a tre velocità. Rapida in Libia e nel Mediterraneo orientale, rallentata in Siria dalla Russia e da Assad, a passo moderato ma insinuante nel cuore dei Balcani meridionali.

In tutti e tre i quadranti l’Europa e l’Italia appaiono incerte: le dichiarazioni sono forti (vedi Macron) ma nei fatti gli europei vanno in formazioni sparse e diverse. In tutte e tre le regioni la Russia appare co-protagonista con la Turchia mentre gli Stati Uniti sembrano più inclini a dare maggiore credito a Mosca e Ankara che non a Bruxelles.

L’Unione, consumata la Brexit, sembra essere sempre meno capace di arrivare, un giorno, ad avere una politica estera e di difesa comuni. La conferenza di Berlino sulla Libia è stata una passerella cosmetica che ha confermato la mancanza nell’Unione di leve negoziali.

Neppure due personaggi in fondo non irresistibili come Sarraj a Tripoli e il generale Haftar della Cirenaica hanno accolto davvero le richieste europee di una tregua. Hanno fatto finta. In realtà nei confronti della Turchia gli europei hanno spinte e motivazioni diverse: e come quasi sempre accade non sono alleati ma concorrenti.

Prendiamo la Germania. La cancelliera Merkel una settimana fa ha incontrato Erdogan a Istanbul per confrontare le agende in Libia e in Siria. Alla conferenza di Berlino la Merkel, a dispetto della Francia, aveva riservato a Erdogan un ruolo di primo piano e appoggiato gli interessi turchi. Ankara sa come usare la minaccia dei profughi siriani per venire a patti con Berlino.

E così è stato. La cancelliera ha accettato di co-finanziare la costruzione di 10mila abitazioni nella Siria del Nord per insediare 400mila siriani in fuga dalla provincia di Idlib, sotto assedio dei russi e di Damasco, dove fuori dall’obiettivo dei media si sta combattendo una battaglia feroce.

Il conflitto di Idlib rilancia l’aspetto competitivo tra Turchia e Russia dopo le intese tattiche sul Rojava. Per ora è fallito lo scambio che avrebbe voluto la Russia di Putin: Idlib in cambio della Tripolitania. E a farlo fallire in fondo è stato proprio il generale Khalifa Haftar: ecco perché Lavrov, dopo Berlino, era furibondo.

La Francia di Macron è stata la più decisa a puntare il dito contro Erdogan accusandolo di non rispettare la parola data sulla tregua in Libia e di rifornire di uomini e armi il governo di Sarraj. La replica di Ankara è stata secca: la crisi libica è stata iniziata proprio dai raid aerei francesi del 2011 contro Gheddafi.

Un muro contro muro che si estende ben oltre le coste libiche. Nel Sahel, dove i francesi hanno schierato un contingente di 4.500 militari, Parigi cerca di convincere i paesi dell’area a sostenere il generale Haftar. Erdogan, dopo un tour in Algeria, Senegal e Gambia, ha fatto appello ad appoggiare Sarraj in nome dell’unità tra i musulmani.

In questo quadro rientra anche l’attacco di Erdogan ad alcuni paesi arabi – Arabia saudita, Emirati, Bahrain – per aver appoggiato il Piano Truffa di Trump in Medio Oriente, definendo la loro posizione «un tradimento» dei palestinesi. In pratica sono nel mirino di Ankara i paesi in prima linea contro la Fratellanza Musulmana.

E l’Italia? Qualche giorno fa a Roma si è inaugurata la mostra sul grande fotografo armeno-turco Ara Guler: le sue immagini di Istanbul soffusa in una fitta nebbia sembravano stese anche sulla nostra politica. Se da una parte l’Italia è solidale con Nicosia e condanna l’intesa tra Libia e Turchia sulla delimitazione della piattaforma continentale, dall’altra non rompe con Ankara e tanto meno con Sarraj perché teme una nuova ondata di profughi: a Tripoli ormai è Erdogan che comanda.

Così il governo rinnoverà tacitamente, o con un negoziato sottobanco, il famigerato memorandum con Tripoli in scadenza nelle prossime ore. Tra i sussurri della nostra diplomazia e le grida di aiuto in mare sacrifichiamo anche le vite degli altri.