Filippo è stata una presenza costante nella mia vita, anche negli anni in cui ci si frequentava di rado. Le sue telefonate mi raggiungevano nei momenti più impensati – spesso legati a richieste di indirizzi o telefoni di persone in qualche modo legate al manifesto e il cui ricordo si perdeva nella notte dei tempi.

Ho studiato Filippo, la sua affabilità e apparente leggerezza con cui affrontava situazioni e persone e che in realtà nascondevano un rigore assoluto, nei giudizi e nelle decisioni. Anche nelle cose che – al momento – mi apparivano più banali o trascurabili.

Con mio padre Giuseppe ha condiviso i primi anni dell’avventurosa (e perigliosa) storia di questo giornale, fra cambiali da saldare e stipendi rimandati sine die. Una coppia all’apparenza mal assortita: napoletano Filippo, bergamasco Giuseppe. Non c’era una lira e le richieste di anticipi venivano liquidate con un diniego circostanziato talvolta, più spesso liquidato con un secco no.

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Ma c’erano anche curiosi giochi di ruolo fra i due, con finti litigi inscenati per impedire a chiunque di affacciarsi dalle parti dell’amministrazione. Con Filippo ho avuto modo di lavorare sul finire degli anni Ottanta nella redazione romana dell’Indice dei libri, un’esperienza importante e che mi ha permesso di conoscerlo ancor meglio e apprezzare la sua capacità di tessere rapporti praticamente con chiunque.

Come mi fu chiaro in un’epica serata nella sua casa di via Romeo Romei, appena sopra il tribunale, per festeggiare i suoi cinquant’anni e dove era presente buona parte della sinistra politica di quegli anni. Mi mancherai Filippo e mi mancheranno anche le tue telefonate che erano di reciproco sfottò dopo qualche Atalanta Napoli…