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La traccia arborea di Piet Mondrian

Divano La rubrica settimanale di cultura e società. A cura di Alberto Olivetti
Pubblicato 3 giorni faEdizione del 25 ottobre 2024

Sono persuaso che la griglia nera che profila le campiture monocrome stese nei puri colori fondamentali – rosso, giallo, blu, bianco – da Piet Mondrian (1872-1944) provenga dai rami secchi che egli dipinge e disegna assiduamente quale suo tema congeniale fin dagli anni Novanta, e per vent’anni quasi, se quel soggetto arboreo sembra addirittura infittirsi nelle sue opere realizzate lungo il primo decennio del Novecento. Fino alla svolta, appunto, a far data dal 1910 al 1913, quando Mondrian fissa la sua ricerca formale e la persegue nel trentennio successivo con fedeltà all’assunto e rigore concettuale.

Intendo dire che quella griglia di righelli neri incrociati che sostiene (meglio: recinge o delimita) i riquadri cromatici secondo una regola geometrica elementare, nasce dalla osservazione dei neri rami spogli raffigurata come la trama entro la quale – en plein air – il cielo retrostante con le sue nubi e le sue luci si fa nella pittura uno sfondo quasi ordinato in tessere entro il castone vegetale della ramatura nuda di foglie. Perché c’è già qualcosa di essenziale nell’albero spoglio del suo verde fogliame, una riduzione a una verità senza orpelli, non più nascosta nella illusione lussureggiante, nel movimento che trascorre le fronde e rivelata, invece, nella sua crudezza. Crudezza, ovvero la figura, l’immagine della struttura, dell’impianto vegetale che cresce e vivifica. A quel ‘fondamento’ (grund) della pianta Mondrian volge la considerazione pittorica, alla sua energia radicale che vince il caduco delle stagioni.

Dico che Mondrian per realizzare, intorno al 1908-1909 Albero blu, la tempera su cartone oggi all’Haags Gemeentemuseum de L’Aia che assumo qui come esemplare, svolge un lungo apprendistato ‘figurativo’ applicandosi quasi esclusivamente alla pittura di paesaggio. Possiamo opportunamente in proposito richiamarci ad un olio su tela dell’anno 1900 conservato anch’esso a L’Aja. Mi riferisco a Canale di irrigazione presso il Gein. Qui bene si apprezza il rapporto che Mondrian istituisce fra il tronco dell’albero in primo piano e le retrostanti porzioni di paesaggio che, in larghe campiture, restituiscono l’alveo del fiume e le sue sponde erbose. Tanto che risulterà perfettamente congruo ‘leggere’ quest’opera sovrapponendovi idealmente dipinti come Composizione XIV, datata 1913, un olio su tela (cm. 93 x 64,5; L’Aia Stedelij k Van Abbemuseum).

Si tratta di un’opera che mostra la fase intermedia della ricerca di Mondrian che già è orientata alla soluzione ‘astratta’ nella regola cromatica e nella composizione. Qui il colore mantiene un carattere tonale che nella trama del nero ancora non lineare, interrotta ma continuamente ripresa, allude all’appassimento del fogliame nelle inflessioni gialle che si spengono in verdi tenui o in pallidi marroni. Insomma, Composizione XIV potrebbe bene aver ricevuto da Mondrian il titolo Albero in autunno, o simili. È che Mondrian segnala con la scelta di ‘composizione’ il suo attendere ad una ricerca concettuale intesa ad una nuova congettura formale, compositiva appunto, che muove dalla immagine ‘naturale’ dell’albero presa come paradigma da elaborare in una figura ‘ideale’.

Ripeto. Sono persuaso che Mondrian è un grande paesaggista che compiutamente si afferma tale proprio nei quadri ad apparente prevalenza ‘geometrica’. Di questo Mondrian paesaggista si ha, in punto di pittura, una conferma quando si constati come, tra i riquadri delle griglie nere dei dipinti degli anni Venti e Trenta, la tinta – o rossa o bianca o gialla o blu – venga stesa. Essa rivela il medesimo ductus, la medesima ‘pennellata’ dei suoi paesaggi en plein air. Invito al raffronto tra Composizione in blu e giallo (olio su tela 45.4 x 45.4 cm. al Denver Art Museum) dell’anno 1932 con, ad esempio, Duna, schizzo in arancione, rosa e blu (olio su cartone 33×46 cm., del Gemeentemuseum) del 1909. Mondrian esalta la materia del pigmento e ne valorizza le increspature in superficie. Non persegue una uniformità che potrebbe ricordare l’aspetto di uno smalto. Lascia, come nei suoi ‘paesaggi’ ben in vista la traccia della sua ‘mano’, la concretezza del suo ‘tocco’.

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