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«La sorte», una poesia di Alceste Angelini

Divano La rubrica settimanale a cura di Alberto Olivetti
Pubblicato 19 minuti faEdizione del 11 ottobre 2024

Credo si possa convenire come la ricerca poetica di Alceste Angelini (1920-1994) trovi nei testi della poesia lirica ed epigrammatica degli antichi greci il suo modello. Modello, ovvero, più precisamente, paradigma: la riconoscibile misura formale entro la quale quegli antichi poeti perseguivano (ed ottenevano) gli equilibri tra parola, costrutto di senso e ritmo capaci di fissare, volta a volta, un tratto del loro patire. Concentrare e circoscrivere in figure assolute le movenze (quanto negli andamenti alterne: dal desiderio, al piacere, alla disperazione!) che animano le passioni d’amore. Rendere il dispiegarsi delle stagioni nel loro correre lungo i consueti tragitti che, secondo il loro procedere, sempre tornano puntuali; e il confronto con la vita di me mortale che si compie per non più tornare. Gli insegnamenti degli antichi validi una volta per sempre. «Il sole è nuovo ogni giorno», ammonisce un frammento di Eraclito che ci ha conservato Aristotele. Ciascuno che viva, giorno dopo giorno, non si rinnova, si estingue. Tale ineluttabile spegnersi Cicerone ha saputo significare nel Cato maior con il suono di parole che paiono un rassegnato sospiro: «sensim sine sensu aetas senescit», a poco a poco, insensibilmente si invecchia, e la vita non si spezza in un tratto, ma si spegne coll’andar del tempo («nec subito frangitur, sed diuturnitate extinguitur»). Temi, si dirà, che non sono certo propri ed esclusivi delle liriche di Ibico o Alcmane, degli epigrammi di Mimnermo o di Callimaco, se costituiscono l’ambito permanente della poesia e della filosofia di ogni tempo.

Ma, venivo considerando, Angelini è quella specifica cifra lirica ed epigrammatica (in larga misura perduta, che ci proviene, per lo più in frammenti, dal settimo secolo fino all’ellenismo) che sonda, che assimila, che ricrea e invera nella temperie artistica del Novecento italiano.

Avviene allora, pare a me, che la lingua italiana distillata nelle poesie (un canzoniere di rara elevatezza, il suo, che assomma a poche decine) scritte da Angelini acquisti nei versi la sua purezza e la sua armonia nel filtro dell’antico modulo compositivo greco che la plasma, dirò, fin dal primo concepimento, nell’animo e nella mente del poeta.

Reca il titolo La sorte un componimento del 1944 accolto tra i sedici di Prime poesie. Mi pare possa mostrare una qualche sintonia con quanto vengo argomentando. In esso, si noti un lemma che è greco – «emerocali» – e sta, diresti, come il castone che recinge le gemme degli otto versi poiché ne contiene, quasi un monogramma, il compiuto senso (emerocali – la bellezza splende nelle poche ore d’un solo giorno – è il nome di quei fiori che s’aprono all’alba e al tramonto appassiscono): «I germogli ripullulano ai giorni/di primavera brevi e luminosi/- qui è dove nacque l’erba e s’atterrò/ghiacciata, qui angosciosi emerocali/un asilo cercarono di cielo./Ma le vite spezzate non hanno ritorni:/non c’è stagione, che si riconforti/questo arcano ed attonito raggelo».
Angelini sceglie di attenersi come a cosa viva agli esiti poetici raggiunti secoli e secoli orsono, in una lontananza di tempi che si vorrebbe ne destituissero la eloquenza e l’esemplarità e fino la bellezza, provenendo da epoche morte a fronte del vivere l’epoca dei suoi anni.

È il punto di vista che sostiene Galvano della Volpe nel recensire su «Primato», nel 1940, i Lirici greci di Salvatore Quasimodo. Polemizzando con la prefazione di Luciano Anceschi alle traduzioni, Della Volpe critica appunto la riproposizione di un’idea di ‘bellezza’ stantia, che non è capace di rendere conto del ‘bello’ del Novecento: «non credo più a questa civiltà poetica classica» scrive, e non crede più ai «teorici del bello come ‘purezza lirica’». Così, alla ‘bellezza antica’ dei versi del Lamento a Bàuci di Erinna che canta: «I bianchi cavalli smaniosi/si levavano dritti sulle zampe/con grande strepito; il suono della cetra/batteva in eco sotto il portico vasto della corte», Della Volpe oppone la ‘bellezza moderna’ della «visione dei carri armati tedeschi sulla strada di Calais», invitando i giovani poeti come Alceste Angelini a farsene – della «bellezza o esteticità di quei carri armati» – cantori.

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