La sfida morale dei democratici, tra il golpista e l’appoggio al genocidio
Il fattore Gaza Da domani 50mila persone e 15mila giornalisti in arrivo. Clinton, Obama e Biden fanno squadra. Per molti deputati dem e per tanti elettori decisivi le parole di circostanza sula Striscia non bastano più
Il fattore Gaza Da domani 50mila persone e 15mila giornalisti in arrivo. Clinton, Obama e Biden fanno squadra. Per molti deputati dem e per tanti elettori decisivi le parole di circostanza sula Striscia non bastano più
Si apre domani a Chicago, per i democratici, la convention della campagna più anomala. Fino a poche settimane fa un partito demoralizzato sembrava inesorabilmente avviato ad una probabile sconfitta contro un ex golpista recidivo, pluripregiudicato ed evaso a numerosi processi ancora in corso grazie alla sovversione (dal lui stesso operata) della Corte suprema che gli ha concesso una improbabile immunità costituzionale.
L’inedita sostituzione del candidato ha trasformato la gara e ribaltato i pronostici. In una manciata di torridi giorni di luglio, il partito della depressione per il proprio anziano alfiere ha acclamato la nuova candidata in straripanti comizi in cui sembrano riattivati i giovani, le minoranze, le donne, le componenti insomma della «Obama coalition» che sono state alla base di tutte le vittorie democratiche degli ultimi 15 anni.
Lo slogan che incapsula il nuovo entusiasmo – bring back the Joy! – rappresenta il fattore “x” che era così dolorosamente assente dalla precedente configurazione, che sembrava fatta apposta per garantire un fatale assenteismo. Conferma anche che il ribaltamento della dinamica è legato più a fattori di percezione «emozionale» che non programmi politici (su questi Harris rimane intenzionalmente vaga), e proprio per questo più difficili da invertire, come istintivamente sa bene il demagogo Trump, ritrovatosi d’improvviso l’unico anziano a ripetere il suo stanco repertorio contro una candidata multietnica la cui immagine è in sintonia “culturale” con l’evoluzione generazionale del paese.
Rimane, certo, il fatto che nelle presidenziali di novembre vi sono di nuovo in ballo le sorti della maggiore democrazia occidentale, con un’urgenza resa più ineludibile dai presagi inquietanti della destra oscurantista e integralista che sostiene Trump. Dall’abrogazione dell’aborto alle politiche attuate quotidianamente negli «stati rossi» a conduzione repubblicana – sono di venerdì le immagini dei container partiti dal New College Florida e diretti alla discarica pieni di libri “epurati” dalle biblioteche universitarie.
PROJECT 2025, il programma ufficioso della campagna Trump, usa l’eufemismo della decostruzione dello stato amministrativo per delineare il progetto di un suo prossimo governo, compreso uso dell’esercito per sedare proteste, abrogazione di ministeri, licenziamenti deportazioni in massa, lo smantellamento dello stato di diritto – con un assist dai nuovi e potenti alleati della destra di Silicon Valley. Un giro di boa, insomma su quella che molti accademici ed esperti considerano la strada verso un governo autoritario e post democratico. Sullo sfondo la minaccia nemmeno troppo sottintesa di una nuova destabilizzazione se le elezioni dovessero essere «nuovamente rubate».
La redazione consiglia:
Senza Eros e tempo, in America la storia diventa cronacaKamala Harris e Tim Walz riproporranno tutto questo dal palco di una convention che dovrà ricompattare la base e lanciarla con lo stesso vigore sulla dirittura di arrivo (in diversi stati si inizia a votare già a fine settembre). Lo dovranno fare tenendo a mente che, a differenza della Francia ad esempio, non basterà assemblare un fronte popolare con una maggioranza nazionale per sbarrare la strada alle destre. Nel sistema uninominale federalista Usa conta il collegio elettorale composto da delegazioni di singoli stati. Alcuni di questi, come i cruciali Pennsylvania e soprattutto Michigan, hanno numerose comunità di discendenza araba e palestinese, particolarmente sensibili all’eccidio in corso a Gaza
ED È QUESTO IL TEMA che promette di produrre le maggiori proteste della convention, che evoca paralleli a quella nella stessa città nel 1968, quando il partito si spaccò fatalmente sulla guerra in Vietnam. A Chicago, due grandi manifestazioni sono state indette, a partire da domani, da un coordinamento di oltre 200 raggruppamenti che in tutto iI paese da ottobre, contro la pulizia etnica in atto, hanno organizzato il più grande movimento di protesta civile visto negli ultimi anni. Per dieci mesi la mobilitazione pacifista ha coinvolto giovani, studenti, diaspora palestinese e una forte componente progressista ebraica rappresentata da formazioni come Jewish Voice for Peace, If Not Now e Never Again Action.
Il movimento è stato strumentalmente denunciato come antisemita, caricato dalla polizia, i pacifici accampamenti universitari smantellati con la forza o addirittura assaliti da estremisti sionisti, compresi elementi legati ai servizi israeliani ed al movimento dei coloni illegali. Sono state istituite commissioni parlamentari contro l’antisemitismo che hanno convocato amministratori e docenti universitari a dar conto di repressione insufficiente di studenti insubordinati. Alcuni, comprese le rettrici di Harvard e U Penn hanno per questo perso l’incarico. La Camera dei deputati ha reso «illegale» citare fonti del ministero della salute di Gaza sul numero di civili uccisi nella striscia. Intanto Netanyahu è stato acclamato da standing ovation nel Congresso a Washington.
Ma quella vergognosa esibizione era stata disertata da metà dei deputati democratici, e questo rischia di tramutarsi in serio problema per Harris e la sua «gioia ritrovata». Una maggioranza del suo partito è infatti contraria alle azioni di Israele a Gaza. Malgrado la sistematica azione della lobby israeliana Aipac, la cui campagna per eliminare dal parlamento esponenti critici della strage infinita rasenta l’ingerenza elettorale di una nazione straniera, il movimento ha espresso centinaia di migliaia di voti nelle primarie e 36 delegati «uncommited».
IL NUMERO È SIMBOLICO ma a Chicago rammenterà alla candidata Harris che per alcuni elettori, in stati che potrebbero decidere l’elezione, non bastano parole di circostanza (quelle con cui Harris auspica genericamente un cessate il fuoco), mentre vengono approvate sempre nuove forniture ai carnefici (l’ultima, la scorsa settimana, 20 miliardi di dollari di armi e munizioni). Non si tratta di «favorire Trump» come obbiettano i pragmatici del «voto strategico», ma «dell’insostenibilità morale», come ha scritto Masha Gessen, di votare per qualcuno che ritiene tatticamente accettabile un genocidio. Una questione morale che a Chicago rischia di diventare centrale.
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