La senatrice Segre, molto elegante e perfetta nel ruolo di presidente, confessa di provare una «vertigine» al pensiero che ad aprire la legislatura ci sia lei, «la stessa bambina che in un giorno come questo nel 1938 fu costretta dalle leggi razziste a lasciare vuoto il suo banco di scuola».

Ci sarebbe da commuoversi, ma nell’aula del senato rimbomba secco uno schiocco che distrae. È la Russa che incontra Calderoli e lo abbraccia nel modo più plateale possibile. «Il mio amico Roberto», dirà poi insediandosi nella carica che l’altro reclamava per sé.

Poche storie, molta scena. Qui si fa politica con le mosse nascoste e i voti segreti, non con le belle parole in chiaro.

Renzi e Franceschini entrano nel salone Garibaldi, la stanza grande di palazzo Madama, alle dieci in punto, all’inizio della seduta manca mezzora. Entrano insieme dalla porta sul fondo, stesso passo, come in scena appunto. Si fermano al centro del salone, guardati da lontano. Potrebbero anche recitare numeri, come gli attori del cinema, ma tutti registrano il lungo scambio.

Si separano di colpo e tre ore e mezza più tardi, quando Ignazio Benito Maria La Russa risulterà eletto presidente del senato con 19 voti in più di quelli sui quali poteva contare la sua maggioranza, tutti ripenseranno alla scena di Renzi e Franceschini.

Anche perché Renzi e Franceschini sono i più veloci a giurare che loro non c’entrano niente. «Se avessimo votato noi La Russa lo rivendicheremo. Noi abbiamo votato scheda bianca», dice Renzi appena uscito dall’aula mentre la testuggine di giornalisti gli si gonfia attorno. Ma dice anche, allusivo, che «se Letta non ci avesse fatto fuori La Russa oggi non sarebbe presidente del senato» e che «Dario è un ragazzo intelligente».

Dario Franceschini immediatamente prova ad allontanare il sospetto: «Era un’occasione ottima per mettere in difficoltà la maggioranza, facendo partire questa legislatura con una spaccatura molto forte. Chiunque sia stato non capisce molto di politica». Della politica trasparente sicuramente sì. Ma non è quella che si fa qui oggi.

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I numeri: senza i sedici senatori di Forza Italia che non hanno risposto all’appello, La Russa poteva contare su 99 voti. Visto che Berlusconi lo aveva appena mandato – e non letteralmente – a quel paese, è probabile che gli unici due voti di Forza Italia (il suo e quello di Casellati) siano andati altrove.

Infatti ci sono proprio due voti per Calderoli. Sono quindi 19 i voti in più per La Russa, che arriva a 116, 12 sopra i 104 che gli sarebbero bastati a prendere la maggioranza assoluta.

Non sono quindi solo i soli voti di Azione-Italia viva. Tanto più che rivisto in video il passaggio dei senatori del cosiddetto terzo polo nella cabina elettorale, tre di loro, non a caso i più calendiani dei nove, entrano ed escono immediatamente: sono Versace, Gelmini e lo stesso Calenda (che infatti giura: «Mai avremmo potuto votare un nostalgico del fascismo»).

Gli altri sei, Renzi in testa, invece all’interno del “catafalco” si trattengono parecchio, girano i piedi verso la mensola che serve a poggiare la scheda per scriverci sopra qualcosa. Votano? O anche qui stanno facendo scena? E se Renzi avesse attratto Franceschini in una trappola incastrandolo nella lunga e plateale chiacchierata? Chi ha messo in giro la voce che Franceschini punta alla vicepresidenza del senato?

I senatori di prima nomina, tantissimi, sono i più in difficoltà a star dietro alle trame. La scena del virologo Crisanti, eletto all’estero dal Pd, che si perde la scheda nel seggio e la cerca con i commessi negli interstizi è un simbolo perfetto del disorientamento dei neofiti. «La prima vittima oggi è la verità», dice poi Crisanti alla buvette. Benvenuto al senato.

Era stato proprio Renzi, alla vigilia, ad aprire il catalogo vicepresidenze. Ci puntano anche alcuni senatori 5 Stelle. Tra questi due di quelli che si sono trattenuti di più nel seggio: Patuanelli e Licheri.

Che La Russa abbia preso voti non ufficiali dal Movimento così come li prese Pietro Grasso nove anni fa, quando fu eletto presidente in questa stessa aula? Da qualche parte bisogna pur guardare, perché anche volendo contare tutti i tre voti dei senatori a vita e i tre degli autonomisti, ne mancano sempre una quindicina. Al riparo del voto segreto, come sull’Orient Express di Poirot, la firma del crimine può solo essere collettiva.

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La vittima è soprattutto Berlusconi, che rientra al senato dal quale fu espulso per la legge Severino ma non per celebrare una rivincita. Il declino fisico del Cavaliere 86enne incarna la crisi del suo partito. Lui sbaglia l’uscita dal seggio, poi rischia di cadere, si fa portare fuori da braccia amiche accompagnato da un applausetto. È circondato da compassione e non più da attenzione.

Questa non è la sua giornata, è la giornata dei post fascisti che lui ha sdoganato e che adesso lo pensionano. Nell’aula diventata troppo larga per il taglio dei parlamentari, tanto da sembrare vuota anche quando è piena, per la prima volta nella storia della Repubblica lo spicchio di destra è quello più grande, si espande fin quasi al centro.

È una storia lunga e a lungo reietta che arriva a prendersi il centro della scena. Non c’era neanche bisogno di ascoltare la rivendicazione di quella storia che fa La Russa nel suo discorso per accorgersene.

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Bastava seguire l’appello dei senatori del partito di Meloni: il neo presidente è solo uno dei tanti terminali di storie familiari missine: ci sono Cantalamessa, Augello, Rastrelli, Rauti… E sono arrivati fin qui.