«Non ci piacciono i veti e abbiamo voluto dare un segnale, tanto sapevamo che il mio amico La Russa sarebbe passato comunque con i voti di Renzi e dei senatori a vita»: dopo la sconfitta, che lui naturalmente nega, Berlusconi spiega così il colpo di testa che sembrava dover bloccare l’elezione di La Russa.

Il Cavaliere, comunque, assicura di averlo votato, come la presidente uscente Casellati, i soli forzisti ad aver ritirato la scheda.

Che Berlusconi fosse al corrente in anticipo del rinforzo pronto a salvare La Russa è dubbio ma che quella manovra fosse pronta in anticipo è invece certo. La sera prima Daniela Santanché avrebbe cenato con Renzi proprio per allestire la trappola ma altri contatti, e non solo con i renziani, c’erano stati anche prima.

Fonti vicine alla leader dicono che ci fossero 25 voti sui quali poteva contare per compensare le defezioni temute. Dunque non solo i renziani ma senatori pescati in vari gruppi.

Oggi una Fi in ginocchio voterà il candidato leghista per la presidenza della Camera, che non è più Molinari ma il numero due del Carroccio Lorenzo Fontana.

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Per un po’, ieri pomeriggio, la tentazione di non accettare il verdetto senza appello della leader tricolore su Licia Ronzulli combattendo anche alla Camera ha circolato. A risolvere il dilemma sono stati i dissensi sullo scontro diretto che impazzavano nel partito azzurro.

«Dalle sconfitte bisogna imparare e spero che chi ha scelto questa linea impari», si allargava la capogruppo al Senato uscente Bernini senza sapere di essere ascoltata. Tra i deputati il malcontento era dilagante. Persino uno dei colonnelli più convinti che fosse giusto impuntarsi, Giorgio Mulè, riteneva che la destra dovesse «ricomporre quello che può essere relegato a episodio da non ripetere».

Non è stato però solo un episodio. È stata una prova nella quale l’ex capo della destra e la leader di oggi hanno misurato la rispettiva forza e dunque il grado di leadership che Meloni eserciterà.

Berlusconi aveva aperto le danze prima che la giostra del Senato partisse, presentando a Meloni, a Montecitorio, quella lista di desiderata scritta a penna sul foglio di carta che poi, in aula, ha sbattuto sul banco di fronte a La Russa. C’era l’indesiderata Licia Ronzulli, alle Politiche europee o al Turismo o almeno ai Rapporti con il Parlamento, c’erano Tajani agli Esteri e Casellati alla Giustizia, Gasparri alla Pa, Bernini all’Università, Cattaneo alla Transizione ecologica, c’era Barachini sottosegretario con delega all’Editoria. Pollice verso.

Alla fine qualcuno di quei nomi nell’organigramma ci sarà ma non i più pesanti, anche se sulla Giustizia Berlusconi proverà a insistere. Di certo non comparirà Ronzulli. Tra i Fratelli qualche ufficiale convinto che fosse opportuno mostrarsi malleabile c’era.

Meloni è irremovibile. A chi le fa notare che i nemici è meglio averli al governo, dove li si controlla, che in un partito di maggioranza, risponde via Whatsapp: «Non sono d’accordo». Exit Licia.

Se ieri la premier in pectore ha potuto imporre uno showdown così plateale non è solo perché sapeva di poter contare sul soccorso rosa di una parte dell’opposizione.

Decisivo è stato l’asse con la Lega.

Salvini ha trattato con lo stile di Bossi e sente ora di aver a portata di mano un bottino ghiotto. La nomina di Giorgetti all’Economia è un colpaccio per tutta la Lega, anche se a metterlo in campo è stata Giorgia Meloni con l’intento di mettere in difficoltà il leader leghista.

Salvini, dopo il disappunto iniziale, ha deciso di cogliere l’occasione, rovesciando però il profilo del possibile ministro. Ieri, dopo un vertice con Salvini e i vicesegretari, lo stesso nel quale Fontana ha sostituito Molinari, Giorgetti ha dichiarato di essere pronto ad accettare la nomina «se la Lega me lo chiederà». Da ieri è ufficialmente il candidato non di Meloni ma di Salvini.

La tensione resta alta. Dagli spalti di Fi voci anonime sussurrano che il partito azzurro potrebbe andare alle consultazioni da solo e sarebbe una spaccatura quasi irrecuperabile.

Meloni glissa, «di come andare alle consultazioni parleremo nei prossimi giorni», ma aggiunge un monito tagliente: «Io sono una persona responsabile, confido che lo siano anche gli altri». La Lega si affretta a smentire: «Notizie prive di fondamento».

Ma il Cavaliere furioso e ferito tace, riunisce i senatori a Villa Grande, forse si prepara alla pace da sconfitto, forse a una guerra che squasserebbe la destra.