La rivoluzione di Farah
Cinema La presa di coscienza di una generazione alla vigilia del conflitto a Tunisi, raccontata dalla regista Leyla Bouzid in «A peine j’ouvre mes yeux» presentato al FIFI, Festival du Film indépendant
Cinema La presa di coscienza di una generazione alla vigilia del conflitto a Tunisi, raccontata dalla regista Leyla Bouzid in «A peine j’ouvre mes yeux» presentato al FIFI, Festival du Film indépendant
Celebrare la resistenza attraverso il cinema, evocando lo spettro più ampio delle sue sfaccettature, sembra fin da subito la missione di un giovane festival, il FIFIB ovvero Festival international du film indépendant de Bordeaux che, fin dalla sua prima edizione nel 2011, sceglie con cura film lontani dai labirinti dell’industria, abitati da eroi quotidiani e combattenti nati, allergici alle regole della società. In questa galassia fatta di androidi, fantasmi, bambini e pecore elettriche, sono le donne, le eroine della grande Storia o delle piccole vite, a brillare di luce propria: da Les filles au Moyen Age di Hubert Veil, gioiosa, stralunata e didattica riaffermazione del potere femminile nell’oscuro Medioevo, alla forza del linguaggio e della parola, le armi di Paulina dell’argentino Santiago Mirte, presentato all’ultima Semaine de la Critique di Cannes.
Remake di un film del 1960, La patota di Daniel Tinayre, Paulina è un giovane avvocato che abbandona la carriera giuridica per dedicarsi all’insegnamento in una scuola per ragazzi poveri lungo il confine con il Paraguay. L’adattamento sembra procedere per il meglio fino a una tragica sera dove la donna, per errore, viene catturata da un gruppo di ragazzi, tra i quali figurano due suoi studenti, e stuprata dal capo branco ma Paulina, pochi giorni dopo, riprende l’insegnamento, scopre di essere incinta e decide di tenere il bambino davanti alla costernazione di amici e familiari. A differenza del predecessore, che ammantava di sfumature religiose e spirituali il dramma della protagonista, il regista cambia prospettiva e regala al film una grandezza politica e sociale che si espande in questa tragedia moderna sul limite delle idee e delle convinzioni che spesso sfociano nella patologica ossessione. La «missione« di Paulina di cambiare la società attraverso il dialogo e la parola, sembra scivolare dolcemente anche nell’opera prima della tunisina Leyla Bouzid A peine j’ouvre mes yeux, presentata circa un mese fa ai Venice Days della Mostra di Venezia e vincitore del premio del pubblico e del Label Europa Cinemas.
Ambientato a Tunisi nei giorni estivi poco prima della rivoluzione del 2010, il film racconta la presa di coscienza della giovane Farah, diciottenne da poco diplomata che, contro l’austerità e le preoccupazioni della madre, canta in una band politicamente impegnata che mescola ritmi tradizionali a sporcature punk. Con coraggio e incoscienza, il gruppo, che esegue dal vivo brani inediti composti appositamente per il film, sfida la censura del regime, portando i testi di denuncia nei bar, nei locali notturni frequentati dalla gioventù tunisina, per strada mentre la madre cerca in tutti i modi di impedire l’attività della figlia iscrivendola alla facoltà di medicina. Gli occhi chiusi di Farah, accecati dalle luci del palco, dalle prime effusioni con il chitarrista del gruppo e dal timore di un sogno troppo grande, lentamente si aprono alla realtà, alla censura, al confronto con un’altra generazione, quella della madre, mentre nei lamenti tragici del mézoued, nella voce di una gioventù costretta a nascondere l’arte e la creatività, nei colpi serrati della batteria giace la rivoluzione, che bussa, che racchiude un’energia debordante pronta ad abbattere la dittatura di Ben Ali.
Leyla Bouzid si ferma poco prima della rivolta, sceglie di scrutare con parsimonia e precisione due generazioni, non solo femminili, in un confronto madre-figlia che da baruffa quotidiana «universale» diventa conflitto storico e generazionale, con la necessità di aggiornare costantemente gli ideali, in modo da riaffermarli con ancora più forza. La madre di Farah infatti si specchia di passato nella ribellione di Farah e lentamente rivela un ritratto emblematico e complesso della donna tunisina prima della rivoluzione, non per forza soggiogata con crudeltà all’uomo o alla società ma quasi in accordo con la rassegnazione e la presa di coscienza realistica di un Paese. Eroine del quotidiano dunque che, ogni sera, magicamente, diventano fantasmi di amore e di desiderio nella splendida sigla-cortometraggio di Caroline Poggi et Jonathan Vinel che introduce tutte le proiezioni (disponibile sul sito del festival o su Youtube). Due minuti di sogno che un giovane ragazzo confida a un amico: il cuore di Vanessa, un’apparizione di donna che il protagonista, con l’immaginazione, porta nel cielo con il suo scooter in direzione tramonto sull’oceano. Vanessa non parla, si abbandona al corpo del ragazzo, ringrazia con i suoi occhi neri per il viaggio fra le nuvole e il ritorno a casa.
Forse, più semplicemente, Vanessa non è un corpo ma il cinema da liberare, da regalare alle stelle e riportare poi sulla terra, quello difeso e protetto dagli schermi del FIFIB qui a Bordeaux.
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