Cultura

La responsabilità tra testimonianza e memoria

La responsabilità tra testimonianza e memoriaWilhelm Sasnal

SCAFFALE «Storia senza perdono», un libro di Walter Barberis edito da Einaudi sulla Shoah e lo sterminio degli ebrei

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 25 ottobre 2019

In Storia senza perdono (Einaudi, pp. 96, euro 12), Walter Barberis affronta una ricognizione dell’impervio dibattito sulla memoria della Shoah che negli ultimi anni ha opposto storiografia e testimonianza, nella tensione tra l’irrinunciabile racconto dei superstiti e la necessaria impersonalità della ricerca storiografica. Lo fa con passo lieve, percorrendo l’enormità dell’accaduto, non emendabile, non rimediabile. Non soggetto a perdono.

METTERE ASSIEME storia e perdono, fin dal titolo, è una mossa che sembra riconciliare i due corni della discussione: il perdono, necessariamente individuale, viene assunto, nella sua negazione, dalla storia. È la storia stessa a farsi depositaria del giudizio, e dunque garante – in un paradosso – dell’impossibilità di archiviare, di mettere la testimonianza nel passato: la storia ci dice che siamo di fronte a un passato che non passa né deve passare.
Primo Levi, riportato in esergo nel volume, ammoniva, quasi cinquant’anni fa: «Quando ho scritto Se questo è un uomo ero convinto che valesse la pena di documentare queste cose perché erano finite. Adesso non sono più finite: bisogna parlarne di nuovo». Bisogna parlarne di nuovo, con urgenza, risignificando ciò che abbiamo trasformato in retorica, convinti di averlo metabolizzato per sempre.

GIÀ A UN DECENNIO dalla fine della Seconda guerra, ci si chiedeva se avrebbe ancora potuto succedere: se la catastrofe avrebbe potuto ripetersi, magari in condizioni e luoghi diversi. Lo scivolamento nell’oblio stava anestetizzando la sensibilità di molti. «Partiti e movimenti fascisti erano stati rifondati e, per quanto ufficialmente banditi, spesso erano tollerati e legittimati dalle aree politicamente più moderate e conservatrici». Con passo misurato, quasi silenzioso, l’autore ci porta agli interrogativi che oggi ci stanno di fronte: quale difesa abbiamo dal potere assoluto che decide della vita delle persone e toglie umanità alle vittime, dopo aver trasformato i cittadini in carnefici passivi o volonterosi? Poca, se non si comprende, o si dimentica, che la nostra normalità si basa sull’orrore trattenuto, che può sempre rompere le catene.
Testimonianza e storia concorrono così «a rifornirci di una conoscenza e di una razionalità che ci consentono di mantenere vive le ragioni della democrazia contro ogni tentazione autoritaria, intollerante e razzista», perché, come insegna Levi, il nazionalismo e il razzismo, al fondo della loro espressione estrema, hanno il Lager.

LA DIMENSIONE individuale della memoria, corale nel ripetersi uguale e tuttavia diverso delle esperienze, e la comprensione storica degli avvenimenti ci conducono insieme, inseparabili, alle molteplici cause del male che d’un tratto si libera e prende il potere, asservendo o incantando persone insospettabili, una dopo l’altra, fino a farne massa.
«Il male ha sempre cause molteplici, persino remote», scrive Barberis, «anche se si manifesta con la rapidità e la micidialità di un colpo di fucile. L’occhio non riesce neppure a vedere la traiettoria della pallottola; lo sguardo può fermarsi soltanto sulle conseguenze, sui cadaveri, sulle carni ferite, sulle menti sconvolte di coloro che sono stati colpiti». La storia è il colpo di pallottola, di cui vanno ricostruite balistica e condizioni di possibilità; la testimonianza è lo sguardo che torna, e torna infinitamente, sui cadaveri, sul male subito e che si è visto subire da altri.
In Storia senza perdono si coglie una tensione allo sguardo d’insieme, a quella che, con bella invenzione, viene chiamata “conoscenza civile”, e una continua attenzione a evitare i luoghi comuni, le parole usurate di cui è lastricato il racconto della Shoah, svuotate, dilavate da un uso improprio e affrettato, fino a diventare scorciatoie del pensiero.
Così che quando leggiamo dei «tantissimi inerti, la maggioranza dimissionaria da qualunque responsabilità morale e civile», possiamo di nuovo chiederci se siamo chiamati in causa, fuori dalla formula della «zona grigia» che, non diversamente da quella, fraintesa e distorta, della «banalità del male», ha smesso di interpellarci.

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