Cultura

Morozov: la privacy presto sarà a pagamento

Morozov: la privacy presto sarà a pagamentoIl sociologo Evgenji Morozov

Intervista Un incontro, presso la Fondazione Feltrinelli di Milano, con il sociologo Evgenji Morozov. «La politica europea potrebbe fare molte cose. Ma è necessario che ci sia un ripensamento radicale dell’approccio Ue alle questioni tecnologiche, a cominciare dall’uso dei dati e dell’intelligenza artificiale»

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 27 gennaio 2018

La Fondazione Feltrinelli è sempre più attiva. Negli ultimi sei mesi ha organizzato moltissimi incontri, seminari e conferenze su vari temi, in particolare sulla partecipazione democratica e i media. Nella cornice di uno di questi cicli, WE the power, the media, the people, ha invitato il sociologo Evgenij Morozov.

L’incontro è iniziato dialogando sulla recente decisione statunitense di cancellare la Net Neutrality, ossia il principio per cui tutti i dati devono essere trattati nello stesso modo da parte dei provider che concedono banda ai produttori di contenuti. Oggi, siamo abituati alla «neutralità della rete» perché – nell’internet che usiamo quotidianamente – i file, le informazioni, i video, etc sono trattati allo stesso modo: a tutti è garantita parità di velocità, al piccolo blog come a Youtube. Ma da quando la Federal Communications Commission (Fcc), l’authority americana per le telecomunicazioni, si è pronunciata – il 14 dicembre scorso – a favore dell’abrogazione della legge del 2015 che sanciva, appunto, la neutralità della rete, si è scatenato un ampio dibattito intorno a questi temi. Se la legge dovesse effettivamente essere cancellata, potrebbero cambiare molte cose circa l’accesso a internet negli Usa, con probabili ripercussioni anche altrove.

«Negli Usa – ha esordito Morozov – c’è stato uno scontro di interessi tra due fazioni delle tech industries; da una parte le compagnie di telecomunicazione che vorrebbero recuperare il terreno perduto nei confronti dei principali produttori di contenuti (come Google, Facebook, Netflix, Amazon) perché pensano che ci siano attualmente troppe regolamentazioni che glielo impediscono. Una classica impostazione capitalista del problema che vorrebbe un mercato il più fluido possibile. E dall’altra, appunto, i ’giganti della Silicon Valley’, che si fanno difensori dell’internet libero. Noi sappiamo che le cose non stanno proprio così perché in realtà Google e Facebook fanno quello che vogliono con i nostri dati e cambiano continuamente gli algoritmi in base ai quali leggiamo le informazioni. Possiamo quindi dire che il modello di internet che loro ci chiamano a difendere non è poi così ’libero’».

Questa situazione può far emergere le contraddizioni interne alla rete. C’è chi pensa che se non ci fosse più la net neutrality i veri padroni della rete non potrebbero più nascondersi…

Non saprei, perché Google investe moltissimi soldi nella costruzione di proprie infrastrutture, come i cavi che attraversano l’oceano atlantico, dunque potrebbero essere autonomi. Ma è una situazione davvero contradditoria. Ai normali utenti che cercano di minimizzare le spese e vogliono internet senza limiti, quelli della Telco non hanno molto da dire, non hanno argomenti. Se si pensa alle richieste dei normali utenti, allora la net neutrality è funzionale, ma se si guarda ai diritti dei cittadini lo è un po’ meno, perché Google e Facebook stanno difendendo soprattutto i loro interessi…

Che idea si è fatto, partendo dagli studi che ha condotto, a proposito delle monete digitali (cryptocurrency), i bitcoin e i possibili usi della tecnologia che sta alla loro base, la «blockchain»?

Per quanto riguarda i bitcoin, più che una moneta si sono trasformati rapidamente in una possibilità di investimento, un asset finanziario. Come chi investe in immobili compra una casa e la lascia vuota, così quelli che investono in bitcoin li comprano e li rivendono ma non li usano. I bitcoin sono stati immaginati e creati per essere una moneta, ma non sta succedendo: al momento funzionano di più come forma di investimento.

Questo non vuol dire che tutti i tipi di cryptocurrency siano destinati a fallire, ci sono sperimentazioni interessanti che, di fatto, creano piccole economie indipendenti dai governi statali e dei loro sistemi monetari. Mi sembra una buona cosa. Non sono particolarmente scioccato da queste innovazioni e dai loro effetti, la loro rilevanza è fondamentalmente economica più che tecnologica. Soprattutto se legata a comunità locali può avere effetti positivi. Dipende da come sono progettate e da come vengono usate. La tecnologia che ci sta sotto, la blockchain, permette soluzioni molto diverse tra loro. È un po’ come con lo smartphone: non tutte le app che puoi trovare migliorano la tua vita.

Nei suoi libri ha descritto molto bene la situazione: privacy, bolla dei filtri, funzionamento degli algoritmi, uso dei dati e dei metadati da parte di Google, Facebook, Amazon, l’influenza sulle emozioni e sui pensieri che possono avere i social network. Quali azioni si possono intraprendere per tutelarsi? Cosa possono fare gli utenti o una «buona politica», attenta agli interessi dei cittadini, a livello statale o europeo?

In merito ai singoli cittadini, ci sono quelli che vengono dagli ambienti dell’attivismo che parlano molto di autodifesa digitale, come il gruppo Ippolita. Ma non credo che sia una buona soluzione per i normali cittadini. Voglio dire: se sei un attivista e fai azioni politiche o cose così può andare bene, ma non necessariamente per i comuni utenti. La mia paura è che l’autodifesa non sia la soluzione. Per esempio, la privacy tra non molto diventerà un servizio che si dovrà pagare per avere. Se le cose vanno in questa direzione l’autodifesa non è un’opzione praticabile per i cittadini. Semplicemente chi potrà pagherà per avere più privacy online.

La politica europea potrebbe fare molte cose. Ma è necessario che ci sia un ripensamento radicale dell’approccio dell’Ue alle questioni tecnologiche, a cominciare dall’uso dei dati e dell’intelligenza artificiale (AI). Bisogna uscire dall’idea che i dati generati quotidianamente siano proprietà esclusiva degli operatori delle piattaforme, non dovrebbero appartenere a loro ma ai cittadini che li producono, in forma di common. Per esempio si potrebbero far pagare loro delle tasse e investire quei soldi in start-up o in associazioni di cittadini che studino quei dati per il benessere della collettività, per un loro uso socialmente utile o a fini scientifici. Al momento, gli unici che possono usarli sono Google, Facebook, etc. Perché sono i soli ad investirci: Amazon fa tantissima ricerca, e lo stesso accade in Cina con Alibaba, per sviluppare l’intelligenza artificiale.

Non ho soluzioni a portata di mano ma, in questo scenario, l’Europa deve trovare il modo di uscire dalla narrazione neoliberista e da questo sonno in cui è caduta da anni, per quanto riguarda i dati e il resto. Altrimenti diventerà una colonia degli Usa e della Cina.

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