La polizia fa sette morti a Baghdad, tre a Karbala
Iraq/proteste Le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco sui dimostranti che avevano circondato l'ufficio del primo ministro nella capitale e il consolato iraniano nella principale città santa sciita. Israele segue con soddisfazione quanto accade e si schiera con i manifestanti che contestano anche l'influenza iraniana sull'Iraq.
Iraq/proteste Le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco sui dimostranti che avevano circondato l'ufficio del primo ministro nella capitale e il consolato iraniano nella principale città santa sciita. Israele segue con soddisfazione quanto accade e si schiera con i manifestanti che contestano anche l'influenza iraniana sull'Iraq.
L’Iraq è sempre più una polveriera. E all’esterno alcuni spettatori molto interessati seguono, con attenzione, gli sviluppi delle proteste popolari contro povertà, corruzione e mancanza di servizi che fanno tremare le fragili istituzioni irachene e sfidano l’influenza iraniana sul paese. Le forze di sicurezza ieri, ancora una volta, non hanno esitato a sparare sui dimostranti, allungando l’elenco di morti che ha già raggiunto il numero di 250. Almeno sette persone sono state uccise nel centro di Baghdad. La folla ha bloccato il ponte di Allawi e la strada dei musei, quindi ha circondato l’ufficio del primo ministro, Adel Abdul Mahdi di cui chiede con forza le dimissioni e provato a raggiungere l’ambasciata iraniana e la sede della tv Iraqiya. Altri tre manifestanti sono stati uccisi nella città santa sciita di Karbala dove è stato attaccato con lanci di sassi il consolato iraniano.
Notizie che hanno rallegrato non poco il ministro degli esteri israeliano Israel Katz. «Israele simpatizza con le proteste per la libertà e la dignità del popolo dell’Iraq. Condanniamo la loro repressione e gli omicidi condotti da Qassem Suleimani e dalle Guardie rivoluzionarie iraniane», ha scritto Katz su Twitter. Parole che hanno rafforzato le tesi di chi in Iraq, e in Iran, attribuisce a una regia esterna la guida delle manifestazioni popolari che vanno avanti da settimane. Dubbi che hanno assalito anche l’ayatollah Ali Sistani, massima autorità religiosa sciita. Proprio a Karbala, il primo novembre, Sistani ha chiesto a non meglio precisato «attori stranieri» di non interferire nelle vicende interne del suo paese. Il suo appello ha fatto il paio con le parole della guida suprema della rivoluzione islamica iraniana Ali Khamenei che qualche ora prima aveva esortato gli iracheni a non fare il gioco di alcune parti internazionali.
Tuttavia se da un lato è evidente che Washington, Tel Aviv e Riyadh (lo testimonia la copertura continua e a senso unico delle proteste da parte della tv saudita al Arabiya) si stiano quantomeno augurando che quanto accade da settimane finisca per indebolire lo status l’Iran in Iraq, dall’altro non si può ridurre una protesta tanto massiccia a una manovra dietro le quinte di attori stranieri. Senza contare che coinvolge soprattutto la parte sciita della popolazione, quella che, in teoria, dovrebbe essere sostenitrice del governo e legata all’Iran. È la realtà che fornisce le motivazioni principali. Nell’Iraq, uno dei maggiori produttori di petrolio, si muore di fame, milioni di iracheni sono senza lavoro, vivono in estrema povertà e puntano l’indice contro chi è al potere e non fa nulla per aiutarli e cambiare le cose. La mobilitazione va avanti di pari passo con l’azione di disobbedienza civile che ha tenuto chiusi uffici pubblici e scuole. Nel fine settimana i manifestanti hanno persino bloccato le arterie stradali che conducono al più importante porto del paese, Umm Qasr. La polizia ha reagito con brutalità ferendo oltre cento persone.
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