La Peste Nera raffigurata da Giovanni di Paolo
Divano La raffigurazione della pestilenza che si contempla in questa mirabile pittura consente di privilegiare un motivo offerto alla nostra meditazione: la presenza della morte è, per un verso, constatazione della morte degli altri e, per altro verso, prossimità ovvero imminenza della morte in chi è vivo ancora
Divano La raffigurazione della pestilenza che si contempla in questa mirabile pittura consente di privilegiare un motivo offerto alla nostra meditazione: la presenza della morte è, per un verso, constatazione della morte degli altri e, per altro verso, prossimità ovvero imminenza della morte in chi è vivo ancora
In un portico, intorno ad un banco, abbigliati in abiti sontuosi, tre giovani gentiluomini e tre donzelle si intrattengono amabilmente giocando ai dadi. Il giocatore di turno ha appena tirato ed ora è intento a conteggiare i punti che la sorte gli ha assegnato. Gli altri commentano, come di consueto accade, e tutti appaiono sereni, ignari di quanto avviene in strada.
Qui, stesi sul selciato, avvolti nelle loro vesti, giacciono quattro corpi esanimi. Su di loro scalpita un cavallo nero montato da un nero cavaliere. La loro corsa dura da gran tempo. È scattata «quando, narra l’Apocalisse, l’Agnello aprì il quarto sigillo».
Apparì allora un cavallo, «e chi gli stava sopra aveva nome Morte. Gli era compagno l’Inferno per inghiottire i cadaveri. E gli fu dato il potere su un quarto della terra di menar strage con la spada con la fame con la peste e con le fiere della terra».
Cavallo e cavaliere sono ora giunti presso di noi. Osserviamo la loro sagoma cupa, campita sulla foglia d’oro dello sfondo, descrivere un contorno eccitato e funesto che è tutt’uno con il movimento inarrestabile di quel destriero lanciato al galoppo, del gesto sicuro di quell’invincibile guerriero. Sulla sua cavalcatura Morte ha diaboliche ali, una falce affilata le pende dalla cintura e imbraccia un arco.
Sei sono i giovani presi nel gioco dei dadi e sei sono le frecce. Ne vediamo quattro, già scoccate, in volo. La loro direzione è precisa, segnata da una mira infallibile. Ciascun dardo va inesorabile alla sua meta e quattro ce ne appaiono i bersagli: lui e lei al tavolo da gioco e la coppia alle spalle di lui, la donna che si tiene teneramente abbracciata al suo uomo. La cocca della quinta freccia è già sulla corda dell’arco che la Morte tende, la Morte che, intanto, stringe nella mano destra la sesta e ultima freccia.
Nessuno dei sei giovani sarà risparmiato. Le quattro frecce scagliate son colte nell’attimo estremo del loro volo, ormai le punte letali sfiorano i rossi e i malva delle sgargianti stoffe e sono per penetrare le carni. Ma nessuno dei giocatori è abbattuto ancora e ancora essi si mostrano ignari del colpo imminente.
Noi che osserviamo siamo colti da un raccapriccio, tanto chiaro ci appare l’esito mortale di quelle traiettorie proprio mentre si stagliano, ferme, a mezz’aria. Ferme come la freccia di Zenone che, dice Aristotele, «occupa sempre in ogni istante uno spazio uguale a sé», così che, secondo l’argomento dell’eleata, «la freccia che si muove è ferma». Verità illusoria, sillogismo falso, un paralogismo precisa Aristotele. Ma tant’è.
Qui, è il caso di dire, le quattro frecce «si muovono e son ferme» secondo le regole che presiedono alla resa del movimento in pittura, sì che, qui, in immagine, la raffigurazione d’una loro ‘stasi’ mette capo alla rappresentazione della loro energia dinamica.
E qui (ed è ciò che conta per mantenerci entro i termini della nostra riflessione), per via di pittura, si vuol significare con le frecce, l’imminenza della morte che colpisce inesorabile. Rappresentare l’imminenza.
Mi sono dilungato a descrivere, mi illudo con bastevole scrupolo, una tavoletta di pioppo (cm. 43×28) dipinta da Giovanni di Paolo (1399-1482), custodita presso il Kunstgewerbemuseum di Berlino. Fu eseguita nell’anno 1437 su commissione della Biccherna, la magistratura del Comune di Siena addetta alla amministrazione della finanza pubblica.
Ogni anno le carte relative e gli atti venivano raccolti in volumi rilegati, le coperte dei quali, in legno, riportavano i nomi degli amministratori ed erano illustrate, frequentemente, con scene che si riferivano ad accadimenti occorsi nella città in quel torno di mesi.
La tavoletta di Giovanni di Paolo, ci informa Enzo Carli, «allude ad una grande epidemia di peste, o ‘morte nera’, dalla quale fu colpita Siena dal giugno al dicembre 1437». La raffigurazione della pestilenza che si contempla in questa mirabile pittura consente, pare a me, di privilegiare un motivo, tra molti altri degni d’esser considerati, che Giovanni di Paolo offre alla nostra meditazione: la presenza della morte è, per un verso, constatazione della morte degli altri (i cadaveri nella strada) e, per altro verso, prossimità ovvero imminenza della morte in chi è vivo ancora (le sei frecce che sono per abbattere i sei giovani).
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