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La nostra comune storia di complementari eresie

La nostra comune storia di complementari eresieLidia Menapace il 3 aprile 2020

Ciao Lidia Se non è mai citata fra i «fondatori» de Il Manifesto è solo perché per esserlo avrebbe dovuto essere anche lei radiata dal Pci; e invece – l’anomalia non è di poco conto - lei fu radiata dalla Dc

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 8 dicembre 2020

Questa foto me l’ha mandata Thomas quando Lidia era ormai alle sue ultime ore. Thomas è un compagno altoatesino che l’ha molto aiutata nell’ultimo periodo, da quando Lidia aveva dovuto smettere di girare come una trottola da nord a sud , per andare dove la chiamavano a parlare i tantissimi circoli e collettivi della disorientata ma tutt’ora grande area di sinistra che non ha mollato. Lei non rispondeva mai di no, partiva come una giovane militante percorrendo l’Italia, su e giù per i treni, come se, anziché esser nata nel 1924, fosse una millennial.

Thomas mi aveva anche veicolato un messaggio di Lidia: «Cara Luciana, con Thomas stiamo facendo esercizio di lettura e di scrittura e ci piacerebbe che la nostra piccola rivista crescesse. Potremmo spedirtela». Allegata, una prima pagina, che sotto la testata Sudtirol, porta questa scritta: «Cercasi, con cortesia, essere umane e esseri umani della specie precedente rispetto all’attuale inumana, per ragionare e immaginare insieme».

È proprio Thomas che mi aveva avvertito che sarebbe stato difficile che Lidia riuscisse a scrivere un ricordo alla morte di Rossana; che infatti non è arrivato. La foto Thomas l’ha scattata il giorno del suo ultimo compleanno, il 3 aprile, e sebbene non sia poi tanto tempo fa ci dà l’immagine della nostra Lidia di sempre: lo sguardo ironico, ridente, sembra ancora giovanissima.

Lidia Menapace è stata, nella storia de Il Manifesto, insieme parte integrante e decisiva della sua leadership praticamente dall’inizio, e un «marziano»: non perché era cattolica, di questi ce ne sono stati sempre molti da noi, ma perché fino alla vigilia del suo approdo nel nostro gruppo ancora in formazione, era stata democristiana. Anzi: assessore per la Dc nella giunta della provincia autonoma di Bolzano.

Arrivò da sola, non ricordo tramite quale contatto, e fui io ad incontrarla per prima , stupefatta, a casa mia. Ho ancora in memoria l’angolo dove, sedute in poltrona, ci annusammo reciprocamente con sospettosa curiosità. Doveva essere la fine del ’69, forse ancora prima che fossimo radiati dal Pci, ma quando erano già usciti due o tre numeri della rivista. So che non doveva essere ancora il ’70 perché – me lo ha confermato Massimo Serafini che ne era stato l’organizzatore (ma lo ricordo anche io) – era già presente al primo convegno operaio del Manifesto che si tenne a Bologna, Borgo Panigale. Una delle nostre prime uscite pubbliche.

Da allora la sua storia è stata la nostra, e se non è mai citata fra i «fondatori» de Il Manifesto è solo perché per esserlo avrebbe dovuto essere anche lei radiata dal Pci; e invece – l’anomalia non è di poco conto – lei fu radiata dalla Dc. Ma «fondatrice» è stata anche lei, a pieno titolo. Fu lei che, fra l’altro, ci introdusse agli scritti di Santa Teresa di Lisieux, e proprio una sua frase divenne il motto più identitario della nostra impresa, non a caso quello con cui Lucio Magri amava spesso chiudere le sue relazioni: «Noi non contiamo niente – aveva detto la Santa – ma dobbiamo operare come se tutto dipendesse da noi»: vale a dire il senso di responsabilità. Una frase densa di significato: averla tenuta presente ci ha evitato di cadere nell’allora assai diffusa faciloneria di una critica degli altri perché non abbastanza coraggiosi da chiamare a questa o quella audacia sconsiderata. Proclamare uno sciopero, per esempio, senza valutare che per chi conta poco se fallisce non se ne accorge nessuno, ma per una grande organizzazione il fallimento ha un prezzo fatale.

Santa Teresa, introdotta nel Manifesto da Lidia, ci ha consentito di non dimenticare di calcolare sempre i rapporti di forza; e di non farsi mai indurre nella tentazione di una critica facilona e un po’ infantile del Pci, pratica allora molto diffusa.  La penultima volta che l’ho incontrata fu a Verbania, quando il locale Museo della Resistenza celebrò Gino Vermicelli, partigiano nelle brigate della Val d’Ossola e autorevole esponente del Pci, che aveva avuto il coraggio (allora per chi aveva una collocazione come quella di Gino vi assicuro che ce ne voleva) di seguire nell’avventura l’indisciplinato gruppo di noi «radiati». Lidia era lì, perché del Manifesto e perché era stata partigiana nella vallata accanto.

E proprio come partigiana l’ho reincontrata l’ultima volta, al Quirinale, nella cerimonia dell’8 marzo cui il presidente invita ogni anno le donne anziane che hanno avuto un qualche ruolo nella storia della Repubblica. Le si avvicinò una giornalista televisiva e allungando il microfono fino al suo viso la presentò dicendo: «E ora ecco la ex partigiana Lidia Menapace». Con la bruschezza che le era solita Lidia le strappò il microfono e disse: «Scusi signorina, io non sono ex, sono tutt’ora partigiana». Sì, Lidia è rimasta sempre partigiana. Perché – e questo è il messaggio che ci lascia – serve essere partigiani, anche quando non si usano le armi. Anzi, è indispensabile.

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