Dopo le dimissioni di Draghi l’interpretazione dei dati definitivi dell’Istat sull’inflazione a giugno (+8%) e delle stime di Bankitalia sulla crescita (con il blocco del gas russo è recessione: -2%, ora il Pil è al +3,2%) restano prigionieri del «teatrino della politica» considerato una patologia nazionale o una psicopatologia dei Cinque Stelle. Commissione europea, sindacati, politici e media internazionali: a nessuno è venuta in mente l’idea che siano la manifestazione di una crisi globale che sta rovesciando i presupposti che hanno spinto alla creazione del governo di «larghissime intese», «senza formule politiche». Quello che poi è imploso per il caos creato dai veti incrociati dei partiti e poi per la decisione di Draghi di tagliare i ponti dopo che i Cinque stelle si sono incastrati nella pasticciata gestione del non-voto al Senato sul «Decreto aiuti».

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La crisi di Draghi spiazza le «larghe intese» in Europa

Sebbene il governo sia andato in crisi già dopo la rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale, la sua formula continua a essere considerata buona in sé. Lo pensa il commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni secondo il quale «in acque agitate la stabilità è valore in sé». Per i sindacati questa «è la crisi peggiore nel momento più difficile» (Cisl); «Non è il momento di indebolire il paese e bloccare le riforme» (Cgil); «La sensazione è che siano rinchiusi in un palazzo distante dalla vita reale» (Uil). Questo è vero, ma lo era anche prima.

In un clima da fine del mondo si aggira un fantasma: il «patto sociale». Draghi lo avrebbe proposto il 12 luglio ai sindacati. In due casi su tre hanno anche criticato l’estrema genericità dei suoi annunci, tanti ne ha fatti in questi mesi. Cgil e Uil, hanno rivendicato lo sciopero generale di dicembre scorso per rinnovare i contratti nazionali e aumentare i salari. In queste condizioni, negli ultimi sette mesi della legislatura, quali «riforme» avrebbe potuto fare un esecutivo bloccato? La riforma fiscale che ha fatto esplodere l’ex maggioranza in pezzi? La riforma del sistema pensionistico che nel 2023 vedrà un ritorno integrale alla legge Fornero, contestatissima dalla metà dei partiti e difesa dall’altra metà? Quella del «salario minimo» mentre in realtà si parla di «minimi contrattuali»?

La crisi, fino a poche ore fa intesa in termini economici, sociali o militari, mostra il suo lato politico, sia pure nelle forme grottesche di cui sono capaci i Cinque Stelle, o di ciò che ne resta. E infatti, più che farla, la stanno subendo. La sua natura molteplice si rispecchia nell’inflazione che, storicamente, è sempre politica. L’otto per cento registrato dall’Istat, valore più alto dal 1986, è il risultato dell’aumento dei prezzi dell’energia causato dai ricatti russi e dalla speculazione sulle materie prime. Si sta propagando agli alimenti e, in misura più contenuta, ai servizi. E aumenta le differenze di classe: la spesa delle famiglie meno abbienti è passata dal +8,3% del primo trimestre al +9,8% del secondo trimestre 2022, mentre per quelle più abbienti dal +4,9% al +6,1%. I più colpiti sono i minori poveri, sostiene Save The Children. Si capiscono allora le ragioni di chi chiede da due anni l’estensione del «reddito di cittadinanza». E cosa ha fatto il governo Draghi, dunque anche i Cinque Stelle? A dicembre 2021 hanno imposto nuove condizionalità per restringerlo.

Per l’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente (Arera), ieri ha presentato la Relazione annuale, la media dei prezzi del gas naturale per i consumatori domestici era, già prima della crisi, più alta della media dei prezzi dell’area euro. Al contrario i prezzi per l’industria erano inferiori. Con il quadruplicamento dei prezzi dal 2020 questa situazione è disastrosa per i cittadini e per i lavoratori, i primi a essere colpiti qualora il gas fosse fermato. Ciò richiederebbe una riforma del mercato per mettere fine alle speculazioni, e non solo i bonus in bolletta che sono stati riconosciuti a 4 milioni di persone. Con lo spauracchio del razionamento nel prossimo inverno saranno i subalterni a essere bastonati. «Servono i piani di emergenza» sostiene l’Arera.
Questa situazione è stata affrontata da Draghi con 33 miliardi di misure estemporanee, come suggerito da tutte le istituzioni internazionali, che hanno attutito il colpo. Ma che devono essere rinnovate con il rischio di rendere insostenibile lo sforzo. I 10 miliardi o più del «decreto luglio» – probabilmente non sarà varato – sono la prova di un affanno, non di una prospettiva.

Dai sindacati alla società civile sono state chieste “misure strutturali”, dunque non solo lo scostamento di bilancio chiesto da tutti i partiti. La decontribuzione degli aumenti nel rinnovo dei contratti o il taglio del cuneo fiscale a favore dei lavoratori, per esempio. Confindustria non è d’accordo. Per fare le cose occorre scegliere. Draghi non era in questa posizione. Il suo però non è un capriccio. È un’idea criticabile del ciclo economico. Pensa che questa crisi sia passeggera, mentre si è concatenata a quella precedente, e tra poco la crescita tornerà a splendere con il «Pnrr». Un piano di difficile attuazione che rilancia il modello economico che ha prodotto il disastro al quale è stata affidata la «ripresa». Nel 2026, e oltre. Questa discrasia temporale, frutto di una visione sfocata, non è l’antidoto ma un propulsore della crisi.