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Il mercato contro il pianeta

Nuova finanza pubblica La rubrica settimanale di politica economica. A cura di autori vari
Pubblicato circa un mese faEdizione del 31 agosto 2024

Governi e forze politiche parlano in continuazione di transizione ecologica, ma continuano trasversalmente a immaginarla come un processo che sarà determinato dalle leggi del mercato e dell’innovazione tecnologica, senza soluzione di continuità.

In quale direzione stia andando il mercato ce lo dice la realtà, sia sul versante dell’energia da combustibili fossili, sia sul fronte delle energie rinnovabili.

Nel primo caso, basterebbe una dettagliata lettura dell’ultimo rapporto (maggio 2024) della ong tedesca Urgewald sugli investimenti finanziari ai combustibili fossili. Ecco dove ‘la mano invisibile del mercato’ immette enormi risorse, mentre la quotidianità della vita delle persone è investita dalla drammaticità del cambiamento climatico: carbone, petrolio e gas, per un totale di 4,3 miliardi di dollari, quasi interamente investiti per lo sviluppo di nuove attività.

Non si tratta quindi di un colpo di coda di un modello destinato all’obsolescenza, ma di scelte consapevoli, dettati dai profitti, verso un rilancio del settore dei combustibili fossili. Secondo il rapporto, sono oltre 7.500 gli investitori istituzionali (banche, fondi, assicurazioni) che finanziano l’intera filiera, dalle attività di esplorazione e ricerca di nuove riserve alla progettazione e costruzione di nuove infrastrutture, dall’estrazione, commercio e trasporto di combustibili fossili alla produzione di attrezzature per i nuovi impianti.

I cavalieri finanziari dell’Apocalisse fossile sono i soliti grandi fondi d’investimento: Blackrock (tra le altre cose, la grande società di investimento con sede a New York è consulente della Commissione Ue per la finanza sostenibile), Vanguard, State Street e Capital Group, mentre l’insieme degli investitori è concentrato in dieci Paesi, la cui pessima classifica vede gli Stati Uniti al primo posto, seguiti nell’ordine da Canada, Giappone, Gran Bretagna, India, Cina, Norvegia, Svizzera, Francia e Germania.

Volendoci focalizzare sull’Europa, che ad ogni piè sospinto parla di green new deal, il vecchio continente copre il 13% degli investimenti totali in combustibili fossili, destinando qualcosa come 554 miliardi di dollari a carbone, petrolio e gas. Quanto il mercato sia poco interessato alla transizione ecologica e abbia come unico faro di navigazione l’estrazione di valore finanziario, ce lo dice il fatto che anche nel settore delle energie rinnovabili i grandi investimenti sono in mano alle multinazionali e sono finanziati dagli stessi fondi d’investimento che abbiamo visto all’opera nel campo dei combustibili fossili.

È così che quello che doveva essere l’avvio di una trasformazione energetica si sta rivelando come l’ennesimo assalto ai territori – con il beneplacito di alcune storiche associazioni ambientaliste – investiti da mega-progetti di impianti eolici e/o altrettanto mega-estensioni di pannelli solari sui terreni agricoli, senza alcuna considerazione né alcun coinvolgimento delle comunità territoriali.

Il fatto è che il mercato e la finanza sono strutturalmente avverse a porsi alcune domande fondamentali:
a) l’energia è un bene comune o una merce?
b) di quanta energia abbiamo veramente bisogno?
c) come intendiamo produrla?
d) è possibile decidere in maniera partecipativa?

La risposta a queste domande porterebbe ad abbandonare subito tutti i progetti di ulteriore sfruttamento delle materie prime fossili e ad avviare migliaia di piccoli progetti di utilizzo delle fonti rinnovabili a partire dal coinvolgimento delle comunità territoriali. Si tratta, ancora una volta, di democrazia: decide il mercato o decidiamo noi, tutte e tutti insieme?

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