Economia

La mela del peccato, così Apple non paga 10 miliardi di tasse

La mela del peccato, così Apple non paga 10 miliardi di tasseTim Cook, amministratore delegato di Apple all'arrivo al Senato – Reuters

Mercato L'azienda di Cupertino ha creato tra Usa e Irlanda un sistema di scatole cinesi che le consente di dichiararsi "stateless". Non più multinazionale ma compiutamente "sovranazionale"

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 22 maggio 2013

Non c’è nessun reato ma l’immagine di Apple non sarà più la stessa. Il brand più pregiato del mondo è anche il re dell’elusione fiscale legalizzata. La mela di Cupertino, infatti, è finita nel mirino del fisco americano per un’indescrivibile sistema di scatole cinesi tra Usa ed Europa che le consente, in alcuni casi, di non pagare tasse in nessun paese (leggi il documento ufficiale del Senato Usa). Per dirla con la stessa azienda di Cupertino, alcune sussidiarie della mela sono «stateless». Cioè «senza stato», più che multinazionali dunque enti sovranazionali, che non devono nulla a nessuno.

Il sistema, utilizzato anche da altre corporation come Hewlett-Packard, Amazon o Google, in fondo è semplice. Sfruttare ogni pur minima scappatoia per non pagare nulla o quasi. Per esempio, il fisco irlandese non fa pagare tasse se la sede legale dell’azienda è fuori dall’isola. Mentre il fisco americano non fa pagare nulla se la sede operativa  è fuori dagli Stati uniti (finché i ricavi non rientrano su suolo americano come dividendi o liquidità). Bene, con questo semplice metodo Apple Operations International non ha pagato un solo euro a Dublino né un dollaro al fisco Usa: la sede legale infatti è a Cupertino (quindi Dublino non prende nulla) e mentre la società lavora Oltreoceano l’occhiuto Irs (l’agenzia delle entrate Usa) resta a bocca asciutta. E non parliamo di bruscolini.

I ricavi gestiti legalmente in modo esentasse sono pari a 74 miliardi di dollari

Secondo il Senato Usa – che da tempo sta investigando sulle pratiche fiscali di Corporate America – Apple ha sottratto in questo modo ricavi regolarmente dichiarati ma esentasse pari a 30 miliardi di dollari dal 2009 al 2012. E questo nonostante di irlandese ci sia ben poco: i conti correnti bancari di Apple Operations International sono a Manhattan, il cda si riunisce a Cupertino e l’unico indirizzo fisico postale è in Nevada. Il totale dei ricavi elusi in questo modo è alto, circa 74 miliardi macinati all’estero e concentrati nelle holding  irlandesi, pari a circa 10 miliardi di tasse in meno all’anno.

Un’altra sussidiaria di Apple, Apple Sales International, ha dichiarato ricavi per 74 miliardi di dollari in quattro anni (dovuti soprattutto al trasferimento di brevetti e proprietà intellettuale a vario titolo). Anche qui tasse  zero. Solo nel 2011 ha pagato un obolo di 10 milioni , cioè un aliquota dello 0,05%, su 22 miliardi di profitti regolarmente dichiarati. Gli investigatori del senato Usa dicono di non aver mai visto nulla di simile. Pur di trattenere Apple nell’isola, lo stato irlandese le avrebbe concesso un aliquota speciale inferiore al 2%, molto più bassa del già basso 12% previsto da Dublino per tutte le altre imprese.

In Irlanda Apple è riuscita ad avere un’aliquota fiscale effettiva dello 0,05%

E lo stesso sistema accade all’interno degli Stati uniti. Apple, non contenta del basso prelievo sulle imprese della California (circa il 9%), per gestire gran parte delle sue operazioni commerciali off-shore ha creato Braeburn Capital, un ufficio a Reno, Nevada, dove il «tax rate» è 0. Una scatola vuota. Che però lavora e macina profitti. In tutto, Apple sostiene di mantenere all’estero ricavi per almeno 102 miliardi di dollari. Un forziere immenso detenuto in valuta Usa e su banche americane, che almeno per la metà è investito in titoli e obbligazioni americane. Ma che formalmente resta all’estero per non pagare la tassa sulle imprese del 35%. Tanto che la stessa società, dovendo dare dividendi agli azionisti, recentemente ha trovato più conveniente emettere obbligazioni per 17 miliardi (quindi indebitandosi ma al costo bassissimo del 2%) pur di non pagare tasse sui profitti all’estero e rimpatriati.

Il ceo (amministratore delegato) di Apple, Tim Cook, ha testimoniato di fronte al Permanent Subcommittee on Investigations (PSI) della Commissione «Homeland Security and Government Affairs» del senato (il video qui) difendendo la società e ricordando che Apple ha pagato 6 miliardi di tasse nel 2012, più di tutte le altre imprese Usa. Afferma di aver pagato ogni dollaro dovuto in tasse e di rispettare le leggi in vigore in ciascun paese. Secondo Cook l’aliquota sulle imprese dovrebbe essere a “una cifra”, sotto il 10%.

Non ci sono reati né colpevoli, dunque. Apparentemente è tutto legale. Anche se Carl Levin, il presidente democratico della Commissione, afferma che se «la lettera della legge non è stata violata sicuramente ne è stato violato lo spirito». E visti i tagli decisi dal congresso e l’enorme debito pubblico Usa l’indignazione è bipartisan. Per il repubblicano John McCain, il sistema di Apple è «egregio» (egregious) ma «scandaloso» (outrageous). E il congresso dunque deve chiudere queste scappatoie e riformare un sistema fiscale che fa acqua da tutte le parti.

Qui il documento ufficiale di Apple presentato al congresso 

Come mai il 60% del business di Apple avviene fuori da Usa e Irlanda mentre i ricavi fuori da questi due paesi sono solo il 6%?

Secondo il professore della Villanova University Dick Harvey, consulente della commissione, è come minimo curioso che il 64% dei ricavi globali lordi di Apple è registrato in Irlanda, dove lavora solo il 4% dei suoi dipendenti e vive meno dell’1% dei suoi clienti. In teoria, i 613 impiegati irlandesi di Apple nel 2011 hanno portato alla compagnia profitti per 36 milioni di dollari ciascuno! E come si spiega – osserva Harvey –  che il 60% delle vendite dichiarate è avvenuto fuori da Usa e Irlanda mentre i ricavi registrati fuori da questi due paesi sono appena il 6%? E ancora, come mai dei 600 milioni di dollari versati in tasse per i profitti all’estero, neanche un dollaro viene dalle attività irlandesi? Visto che l’aliquota effettiva sui profitti all’estero è stata di appena il 2,5% l’accusa, neanche tanto velata, è che  Dublino sia un vero e proprio paradiso fiscale al pari di Bermuda, Cayman e altre isole favolose.  L’Irlanda, oltreoceano, ha negato sdegnata.

Il problema è soprattutto europeo. Il bailout irlandese è stato pagato con i fondi dei vari stati  e della Ue. E’ legittimo che Dublino distrugga fiscalmente proprio i paesi che l’hanno salvata?

Il problema, infatti, è ben più grande della già grande società della mela. Visto che l’Irlanda è stata salvata con fondi europei, è legittimo che l’Ue chieda conto a Dublino di questo gigantesco ombrello fiscale che danneggiasoprattutto i paesi che l’hanno salvata dal fallimento?

Sollecitati dalle domande di Levin, i manager di Apple hanno ammesso: a) che i profitti e i diritti per tutte le Americhe sono generati da Apple Inc e quindi tassati negli Stati uniti e b) che quelli del resto del mondo sono stati trasferiti nel paradiso fiscale irlandese in base a un accordo del 2008 tra tre società diverse, tutte di Apple.  Un accordo sottoscritto da Tim Cook. Levin ribadisce: “Il 95% della vostra creatività è in California ma due terzi dei profitti internazionali sono in Irlanda. Non sto dicendo né che è legale né che è illegale, sto dicendo che è una vostra libera scelta”. E ancora: “Per vostra scelta, per una libera scelta di Apple, i vostri profitti sono in queste società irlandesi che non esistono da nessuna parte, che vivono sull’acqua”. E poi conclude:  “Dobbiamo cambiare il sistema tributario, ma per cambiarlo non dobbiamo negarlo. Assistiamo a un danno fiscale enorme perché queste compagnie – ed Apple è solo la più grande – possono spostare a piacimento i profitti dove non pagano tasse. Non possiamo davvero più continuare con un sistema in cui una società di successo come la vostra può decidere liberamente, come nel 2008, se fare affluire i profitti in un paradiso fiscale quale oggettivamente è l’Irlanda”.

E chi è l’ideatore di questo “paradiso fiscale”? Ma gli Stati uniti, naturalmente. Nel 2010, in piena crisi finanziaria, l’American Chamber of Commerce of Ireland ottenne da Dublino una totale esenzione fiscale per i profitti su brevetti e proprietà intellettuale.  Un cavallo di Troia che ha risucchiato subito tutti i profitti europei delle varie multinazionali. Soprattutto dell’hi-tech.

Il problema è enorme. Secondo il Congresso, sulle prime 100 imprese Usa ben 83 hanno sedi secondarie in paradisi fiscali. Il risultato è che dalla Seconda guerra mondiale a oggi il peso tributario si è trasferito sempre di più sulle spalle delle persone fisiche, mentre le grandi aziende ormai pagano pochissimo. Nel 2011 le persone fisiche hanno versato a Washington 1.100 miliardi di dollari in tasse, mentre le imprese dichiarando profitti superiori a 1.800 miliardi ne hanno versati solo 181  (cioè un aliquota reale del 10%).

Nel 2011 i contribuenti Usa hanno versato 1.100 miliardi di dollari al fisco. Le imprese solo 181

Il sistema fiscale pensato per la old economy inoltre mal si adatta alla new economy. Come per la finanza, che è ormai al di sopra degli stati tranne quando deve essere salvata, anche per Apple o Google è facile vendere canzoni, app e software da qualsiasi parte del mondo. Lo è un po’ meno vendere meloni, automobili o caldaie. Apple, per esempio, ha pagato tasse reali pari a circa il 10% dei ricavi. Mentre il supermercato Walmart il 24%. Entrambi comunque ben lontani dall’aliquota ufficiale del 35%.

Apple, che comunque viste le sue dimensioni è anche l’impresa Usa che paga più tasse di tutte, rivendica i 600mila posti di lavoro creati, chiede una semplificazione del sistema fiscale e non disdegna una specie di «scudo» stile Tremonti. Uno scudo che anche gli Usa di Bush vararono nel 2004 con un aliquota del 5,25%. I capitali scudati all’epoca furono 300 miliardi di dollari. E oggi il repubblicano Rand Paul vorrebbe fare il bis.

Il 93% dei 300 miliardi di dollari rientrati con lo scudo fiscale di Bush nel 2004 è andato ai dividendi e ai bonus dei managerNational Bureau of Economic Research

Ma uno studio del National Bureau of Economic Research ha dimostrato che nel 2004 il 93% dei soldi rientrati andò in dividendi e in bonus per i manager. Otto anni dopo il problema è ancora lì, intatto. La montagna di soldi off-shore è di nuovo pari ad allora. Perché l’economia digitale viaggia senza confini. E le multinazionali pensano di vivere «senza» o «al di sopra» di qualsiasi governo del pianeta.

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