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La matita spezzata di Charlie

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Verità nascoste La rubrica settimanale di Sarantis Thanopulos

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 17 gennaio 2015

Pubblicando le vignette su Maometto, Charlie Hebdo si è trovato nel bel mezzo di un intreccio di conflitti che riguardano non solo la libertà d’espressione ma anche il rapporto tra culture diverse, le relazioni tra paesi sviluppati e paesi non sviluppati e il terrorismo islamico. Pensare di poter indurre un cambiamento nel modo di sentire dei musulmani, armati di una vocazione libertaria che ha le sue radici nell’Occidente, è stato un errore di valutazione.

La satira è l’uso dissacrante dell’umorismo. La funzione dell’umorismo è di rendere ammissibili emozioni, sentimenti e pensieri repressi o rimossi, perché la loro espressione è connessa, in un modo o in un altro, all’aggressività.

Da una parte mette in circolazione contenuti psichici significativi, rendendoli condivisibili e godibili, dall’altra sublima e sdrammatizza l’aggressività, allontanandola dall’offesa pura. Svolge un ruolo importante nella civilizzazione degli impulsi aggressivi, a condizione che inserisca l’aggressore e l’aggredito in una comune cultura di appagamento sublimato delle loro pulsioni.

La satira si avvale di un’aggressività più slegata. Ha un bersaglio da colpire e fa del «politicamente scorretto» uno strumento temibile. La distingue dall’aggressione vera e propria il fatto che nel colpire deve far ridere. Non fa ridere per colpire (non vuole ridicolizzare). L’elemento comico crea, infatti, le basi psicologiche perché l’attacco non funzioni come forza distruttiva ma come azione liberatoria.

Il bersaglio della satira è la sacralità del potere: il suo costituirsi come dogma intoccabile che configura la vita di tutti a sua immagine e somiglianza. Aggredire il potere nella sua pretesa intoccabilità, contestando e rendendo manifesta la violenza della sua tirannia, serve a liberare le coscienze da un pensiero che uniforma e aliena. Ridere di esso, abolisce i condizionamenti psichici attraverso i quali realizza la sua presa e anticipa il senso di liberazione che il suo tramonto produrrebbe.

La congiunzione della rabbia con lo humor ha un effetto corrosivo: non solo emancipa i sottomessi ma fa vacillare anche la sicurezza, la convinzione di sé, in chi la sacralità del potere la rappresenta e la interpreta. Spoglia di senso le sue ragioni e gli infligge la più forte delegittimazione: quella che viene da dentro di sé. Più la sua reazione è violenta più vuol dire che la satira gli ha insinuato il dubbio.

Tuttavia, lo strumento satirico non può essere usato in modo avulso dal contesto in cui esso e il suo bersaglio si collocano. Per far ridere, ha bisogno di una complicità culturale che rende accessibile il suo effetto comico. Per poter aggredire la norma oppressiva deve operare all’interno di rapporti di potere definiti in modo inequivocabile: non può agire come bomba «intelligente» che colpisce i miserabili.

Nessuna di queste due condizioni è stata adeguatamente soddisfatta nella satira sulla fede islamica.

Nell’incontro tra culture diverse l’interpretazione dell’umorismo, e il suo godimento, devono essere il prodotto di una contaminazione reciproca, che richiede curiosità, sensibilità e attenzione. Una cultura non può pretendere di dare insegnamenti all’altra, seppure con delle migliori delle intenzioni, soprattutto se è dominante sul piano politico-economico. La satira ha trovato nel fanatismo islamico un falso obiettivo, perché questo fanatismo è la reazione cieca al dominio, vero, dell’Occidente.

La cecità, diventata follia, ha trovato nella satira un nemico altrettanto falso. Schierarsi con la matita contro il kalashnikov è giusto e necessario, ma anche una magra consolazione.

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