Cultura

La lingua straniera che è dentro di me

La lingua straniera che è dentro di meUn’installazione nella mostra «Between the Covers: Altered Books in Contemporary Art», a Scranton

Editoria Un incontro con Cheikh Tidiane Gaye e Pap Khouma, ospiti a Milano per Book Pride

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 24 marzo 2017

Se il tema della terza edizione di Book Pride a Milano (24-26 marzo) è «Lo straniero», chi meglio di due autori senegalesi «naturalizzati lombardi» potrà illuminarci sull’importanza della scrittura per coloro che hanno scelto alla fine del secolo scorso, in tempi più o meno remoti e non sospetti, di lasciare la sua patria di origine e di abbracciarne un’altra, adottandone al contempo non senza riserve lingua, usi e abitudini?

Di questo, e altro, Cheikh Tidiane Gaye e Pap Khouma dialogheranno infatti il 25 marzo ( alle ore 17) al Mudec di Milano, in un incontro dal titolo Letteratura migrante, a cura del centro culturale multietnico La Tenda e Sistema Bibliotecario Milano. Sotto l’etichetta di «scrittori migranti» (accanto ad altre più fantasiose o evocative), sono designati gli autori provenienti da luoghi «altri», ma che dopo migrazioni e processi di riassestamento scelgono di scrivere in italiano, per ricavarsi nuovi spazi di affermazione ed espressione, sociale, culturale e artistica, ma anche fortemente politica.

SEMPRE PIÙ, questi autori non nativi ma ormai italiani «di fatto», sono presenti sulla scena culturale degli ultimi decenni attraverso pubblicazioni singole, miscellanee e riviste, interventi pubblici, letture e performance poetiche, in un’attiva quanto eterogenea partecipazione volta alla ri-definizione della nostra stessa identità nazionale e, a un livello superiore, all’universalità delle culture e dell’umanità.

Nel lontano 1990, Pap Khouma ha posto una pietra miliare nell’individuazione di questo percorso con la pubblicazione di Io venditore di elefanti (scritto con Oreste Pivetta, narrazione della sua esperienza mirabolante di migrazione e iniziale rigetto, vendendo elefanti e altra «oggettistica etnica» tra Riccione e Parigi), ed è considerato, proprio grazie a quel libro, il capostipite di una generazione di scrittori in Italia. Gli chiediamo del passaggio dalla sua lingua madre a quella di cultura, del luogo in cui attualmente scrive e «vive». «È stato un lungo percorso – spiega Khouma – iniziato già nel mio paese durante la mia crescita ed educazione. In Senegal si parlano diciassette lingue, dunque il bilinguismo e trilinguismo sono diffusi. Sono nato a Dakar e il wolof è la mia lingua madre, ma già a sei anni ho dovuto apprendere il francese a scuola, che è la lingua ufficiale, ed era l’unica che permettesse una comunicazione tra tutti i bambini della classe (a chi faceva errori veniva appeso il simbolo dell’asino al collo a quei tempi!). Scrivo in wolof fonetico ma in francese ho imparato tutte le materie, dalla matematica alle scienze e la ginnastica, dunque lo considero la mia ’lingua padre’. Alle secondarie ho poi imparato lo spagnolo e l’inglese, anche quelli obbligatori, ma da quando vivo in Italia, ho cancellato il primo e ’maccheronizzato’ il secondo. Qui ho imparato l’italiano per forza e per sopravvivenza la notte, ascoltando la tv e leggendo molto, dai giornali a Lupo Alberto. Negli anni ottanta, il bilinguismo in Italia non era diffuso, gli unici con cui potevo parlare francese erano altri immigrati. L’idea di Io venditore di elefanti è venuta da Pivetta: io non avevo alcuna intenzione di diventare scrittore, ma così è andata e vedendo il mio nome sulla copertina di un libro, ho deciso che allora dovevo diventarlo sul serio».

COSA AGGIUNGE questa scrittura alla letteratura italiana tout court? «Temi nuovi ma non solo – continua Kouma – portiamo culture diverse, realtà differenti, un particolare modo di scrivere e di raccontare. Il mio amico Kossi Komla-Ebri parla ad esempio di ’oralitura’, che riconduce al complesso della letteratura orale: non basta usarla per comunicare, chi la propone deve conoscerne le regole precise per trasferirla all’interno dell’italiano. Mi definisco francofono e italofono e con la letteratura della migrazione sviluppo aspetti che arrivano da altri mondi, usando la lingua italiana per descriverli. Nel mio Nonno Dio e gli Spiriti Danzanti (2005) riconsegno quello che chiamo ’mondo invisibile’. Offro anche una serie di testimonianze reali della nostra esperienza, come avviene in Noi italiani neri (2010)».

E per quanto riguarda il pubblico? «Il 4 di aprile verranno a Milano alcuni studenti di una università di Copenaghen, che hanno studiato e letto i miei testi in italiano e hanno chiesto di incontrarmi. Dipende comunque dal valore del libro, non tutti sono ugualmente validi. Il mio esordio letterario ha avuto una grande fortuna e, dopo ventisette anni, continua ancora a vendere».

STANZIATO IN BRIANZA (ad Arcore per la precisione), Cheikh Tidiane Gaye è conosciuto dal pubblico come poeta (Il canto del djali, Ode nascente, Rime abbracciate e Curve alfabetiche). Più recentemente, è stato scoperto anche per la sua produzione narrativa Prendi quello che vuoi ma lasciami la mia pelle nera, con una prefazione di Giuliano Pisapia. A lui abbiamo chiesto come sono state accolte le sue opere e cosa è cambiato nel corso degli anni. «Ho notato con piacere un riscontro positivo, ci sono studenti che hanno sostenuto delle tesi di laurea sui miei lavori e il mio ultimo libro è stato inserito nel programma universitario a Bologna. Purtroppo, devo constatare che vivo in una società che fa molta fatica ad aprirsi, ’abitata’ da una classe politica che non è in grado di tracciare sentieri propositivi né capace di favorire il dialogo culturale. Questa crisi non tocca solo l’Italia, abbiamo un Occidente senza riferimenti e senza traguardo».

MA LA DEFINIZIONE di ’letteratura migrante o di migrazione’ è qualcosa che può essersi trasformata in un ostacolo. Le opere, forse, vanno giudicate solo per il loro contenuto e valore artistico… «Tutto dipende dal connotato che si dà a definizioni come italofonia o scrittore migrante – dice Cheikh Tidiane Gaye – Credo molto nell’unicità della letteratura. Si è poeti o scrittori a prescindere, indipendentemente dell’uso della lingua, o delle proprie origini. Qualche volta la terminologia tende a ghettizzare. Essere poeta italofono può voler dire poeta di serie «b»: non è accettabile. Alcuni studiosi sono ancora reticenti, ma penso che la nostra scrittura finirà per essere riconosciuta: è una produzione ricca e convincente. È un dato di fatto che la lingua italiana crescerà con il contributo dei cittadini migranti che la rendono più viva con nuove sfumature, modi di dire e neologismi.

ESISTE DUNQUE un ruolo oggi dello scrittore, artista, intellettuale migrante? «Lo scrittore è il vate del suo popolo – afferma ancora Tidiane Gaye – Ha il compito di svegliare le coscienze, tracciare le vie di convivenza civile, difendere i più deboli, rivendicare i diritti dei disagiati, denunciare i pregiudizi, favorire l’uguaglianza e, infine, morire per una causa. Finché il poeta non agisce in questo senso, la crisi continuerà a dilagare. Oggi vi sono troppe disuguaglianze e distorsioni sociali, lo scrittore è chiamato a denunciarle. Quando scrivo non posso non parlare di pace, libertà, solidarietà, amore tra i popoli. Ma non dimentico secoli di schiavitù e colonialismo».

Infine, un’incursione nel presente e le sue emergenze: le comunità multietniche e multiculturali, anche in considerazione di scenari politici, migratori e sociali preoccupanti, hanno un futuro? «Dobbiamo sempre lavorare per favorire l’universalità delle culture. L’accettazione è un processo molto lungo e ci vuole tempo per arrivarci. I popoli tendono a incontrarsi sull’economia, la musica, la politica, ma per restare insieme e convivere ci sono e ci saranno sempre difficoltà in quanto l’uomo, con fatica, ’condivide’. Il futuro crea dubbi ma non dobbiamo aver paura di affrontare i nodi della storia. Lavorare per favorire l’integrazione culturale è il dovere di ogni governo, i cittadini vanno preparati, la politica deve fare la sua parte e lo scrittore parli della società».

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