Abbiamo confidato, giustamente, che il 25 aprile di quest’anno, la prima ricorrenza della liberazione dell’Italia dal nazifascismo che vede al governo gli eredi diretti di quella sciagurata dittatura, le piazze di tutte le città italiane si sarebbero gremite, com’è stato, di cittadine e di cittadini come lo furono settantotto anni fa per festeggiare la fine della guerra e della tirannia. È stato dunque un segnale forte all’indirizzo della smemorata politica nazionale che inevitabilmente parla anche alle altre nazioni europee che osservano preoccupate l’evoluzione italiana, timorose di un contagio che cancellerebbe conquiste di civiltà faticosamente raggiunte nel corso del dopoguerra.

In anni piuttosto recenti la ricerca storica ha potuto meglio documentare anche il ruolo e l’importanza che nella guerra di Liberazione ebbero i meridionali combattendo nelle regioni del Centro Nord occupate dai tedeschi grazie alla complicità dei fascisti.

Fu il comandante Barbato, il siciliano Pompeo Colajanni, a trasgredire l’ordine del colonnello inglese John Stevens, che era a capo della Special Force in Piemonte, e raggiungere per primo Torino con i suoi uomini per liberarla dopo tre giorni di intensa battaglia. E toccò al suo vice, Petralia, anch’egli siciliano, l’onore di portare la bandiera in piazza Vittorio Veneto nella manifestazione conclusiva dell’esperienza partigiana il 6 maggio del ‘45. Non un caso isolato, per quanto di fondamentale importanza. In Emilia nel luglio del ’44 è stato il pugliese Achille Pellizzari, nome di battaglia Poe, a diventare prefetto del Territorio Libero del Taro, una delle prime repubbliche istituite dai partigiani; mentre era il siciliano Giacomo di Crollalanza, Pablo nella guerra partigiana, il comandante militare della piazza di Parma, caduto poi in un agguato tesogli in ottobre. In Val Sangone il movimento resistenziale prese il via per iniziativa dell’abruzzese Luigi Milano e sarà guidato sino alla liberazione dai fratelli calabresi Franco e Giulio Nicoletta che avranno al loro fianco un’altra coppia di comandanti calabresi, Antonio e Federico Tallarico.

Nella Liguria di Levante sono stati invece due sardi, Piero Borrotzu e Franco Coni, a svolgere un ruolo decisivo nell’organizzazione della Resistenza e il primo dei due cadrà da autentico eroe in un piccolo borgo dell’entroterra, consegnandosi al nemico per impedire la rappresaglia sulla popolazione civile.

Non sono che esempi di una storia che il Mezzogiorno ha vissuto da protagonista ma di cui fa ancora fatica ad appropriarsi perché per lungo tempo ha retto il paradigma che la Resistenza sia stata una vicenda tutta settentrionale. Per questo era auspicabile che ieri, 25 aprile, scendessero in piazza anche le città del Sud, rivendicando l’appartenenza a una storia che è stata comune a tutti gli italiani e ha portato alla Repubblica e alla Costituzione.

I meridionali hanno anche una ragione in più per farlo. Devono sventare un’altra minaccia, quella dell’autonomia regionale differenziata che porterebbe a una nuova divisione del Paese.

Non possono consentirlo perché, grazie al sacrificio di tanti partigiani anche del Sud, l’Italia ha ritrovato la sua unità nazionale sconfiggendo il fascismo e i progenitori dei sedicenti patrioti di oggi, fondatori di un’altra repubblica, quella di Salò.