La libera università di Rojava
Siria Dal 2016 nel nord della Siria un nuovo ateneo ha rivoluzionato l’accademia: solidarietà sociale, spirito egualitario, lotta alle gerarchie, internazionalismo. E senza tasse da pagare
Siria Dal 2016 nel nord della Siria un nuovo ateneo ha rivoluzionato l’accademia: solidarietà sociale, spirito egualitario, lotta alle gerarchie, internazionalismo. E senza tasse da pagare
Negli ultimi dieci giorni di aprile sono stato ospite della nuova università del Rojava, fondata nel 2016 come istituzione pubblica dalle autorità della Federazione della Siria del Nord. A partire da un’idea della traduttrice Havin Guneser della Campagna internazionale per la liberazione di Ocalan, ho potuto organizzare con studenti e studentesse del Rojava alcuni seminari sui temi dei quali mi occupo abitualmente: sociologia dei movimenti sociali, ricerca etnografica, zapatismo. L’amministrazione dell’università vuole rafforzare i legami internazionali aprendo alle università straniere la possibilità di costruire relazioni, cooperazione scientifica e scambi culturali a tutti i livelli.
A Qamishlo per entrare all’università si supera l’ennesimo posto di blocco degli Asayis, le forze di sicurezza interna della Federazione dove l’atmosfera è più rilassata del solito. All’ingresso dell’Università del Rojava fanno capolino degli stencil del Pyd, il Partito dell’Unione democratica, con l’onnipresente icona di Ocalan e una locandina che annuncia in curdo la rappresentazione dello spettacolo di Dario Fo e Franca Rame Una donna sola in uno degli auditorium della facoltà di Lingua e Letteratura curda.
Studenti e studentesse entrano alla spicciolata, arrivano in autobus dalle cittadine rurali del cantone di Cizire e dalle strade polverose e caotiche del centro città. Raggiungono i diversi plessi nei quali sono divise le attività delle facoltà, alcune in centro nel settore controllato dalle Ypg e altre nell’edificio principale in periferia, un terreno pieno di verde e alberi, cosa rara da queste parti: prima della conquista dell’autonomia era la sede del dipartimento di agraria dell’università del regime.
Molti studenti e studentesse come molti loro insegnanti sono stati sfollati un anno fa dall’Università di Afrin, uno dei tre atenei fondati dal 2015 in Rojava (Afrin, Kobane e Qamishlo), e oggi in esilio dopo l’invasione turca e jihadista.
«Siamo rimasti in città fino al 16 marzo 2018, tutte le notti sentivamo i bombardamenti aerei e non riuscivo a dormire. Poi siamo andati via con i colleghi dell’università e gli studenti, non volevamo lasciarla in mano ai turchi ma ci siamo ritirati per evitare altre perdite umane, era chiaro che avrebbero raso al suolo la città in caso di resistenza – racconta Gulistan Sido, un master in letteratura moderna a Paris III e traduttrice da curdo e arabo – Ho saputo che la mia casa è stata data a famiglie arabe di jihadisti sfollati dalla regione della Ghouta e che tutta la mia raccolta di libri è stata bruciata».
In un clima di grande precarietà i giovani fanno ugualmente progetti. In questa nuova università, mi spiega Leyla, co-presidentessa della Facoltà di Jineoloj (scienza delle donne) circa mille studenti e studentesse studiano diverse discipline. L’anno scorso sono stati consegnati i primi 250 diplomi del primo ciclo sperimentale, la formazione è avvenuta in modo intensivo in due anni dal 2016 quando è stato inaugurato l’ateneo.
Tutti i nuovi laureati hanno trovato lavoro nelle nuove istituzioni della Federazione: comunicazione e media, insegnamento nelle scuole primarie e secondarie. Da quest’anno le matricole seguiranno un corso di quattro anni. Ci sono diverse facoltà: Ingegneria petrolifera nella città di Remeilan vicino ai campi di estrazione del greggio, Jineoloji, Lingua e Letteratura curda, araba e inglese, Economia sociale e amministrazione, Scienze sociali (Storia, Geografia e Pedagogia) e Scienze Applicate (Biologia, Fisica, Chimica, Matematica).
Le differenze con le università del regime sono tante, soprattutto nell’impostazione pedagogica e delle relazioni. I due co-presidenti Rohan Mistafa e Ehmed Ibrahim mi illustrano il metodo di valutazione: «Al pari delle conoscenze e le competenze tecniche vengono valutate l’interpretazione della cultura e della morale della modernità democratica, l’applicazione creativa della conoscenza e l’impiego in progetti pratici, il comportamento conforme ai doveri e alle responsabilità assegnate e la partecipazione attiva nella vita comunitaria».
È evidente l’influenza politica del Pyd, soprattutto per quanto riguarda lo spirito egualitario, l’enfasi sulla solidarietà sociale e sulla costruzione della «modernità democratica» facendo riferimento alle riflessioni politiche del leader del Pkk da lunghi anni detenuto in isolamento in Turchia.
Nella caffetteria tra una lezione e l’altra si chiacchiera e tra il fumo azzurro delle sigarette che di prima mattina aggiunge un tocco di orientalismo apprendo che chi frequenta sono spesso figli di famiglie di agricoltori o lavoratori informali: l’università è gratuita e paga sostegno economico e alloggio a chi viene da fuori. Le famiglie più ricche sono scappate durante la guerra contro Daesh e hanno mandato i figli a studiare all’estero.
Chi è rimasto lo ha fatto per necessità o convinzione politica a sostegno del progetto rivoluzionario in Rojava. Tutti i giorni si studia a pochi chilometri da una frontiera di guerra. Il muro eretto dalla Turchia si estende per tutto il confine nord del Rojava e la terra di nessuno è costellata da un lato di torrette di guardia e caserme e dall’altro di trincee e bunker dove Ypg e Ypj sorvegliano il nemico.
«È strano pensare al futuro – mi confessa Jasmin, studentessa di una famiglia araba di Amude, storico centro a maggioranza curda a circa 30 km a ovest del capoluogo – Studiamo perché vogliamo essere libere, ma poi se verrà la guerra diventeremo soldatesse nelle Ypj e magari moriremo». Gli occhi si riempono di lacrime per un attimo. Poi si sistema l’hijab e mi accompagna a visitare le strade chiassose della sua cittadina di agricoltori: c’è una chiesa cristiana nella stessa via della moschea.
Il tempio è presidiato dalle Ypg che appena mi vedono fare foto mi raggiungono preoccupati. La situazione si distende subito dopo quando la custode della chiesetta ci apre il cancello per mostrarci orgogliosa il piccolo tempio ma soprattutto per dirci che suo figlio è morto un mese fa, a marzo, sul fronte di Baghouz contro l’Isis. Mi si chiude lo stomaco a vedere i suoi occhi bagnati e a pensare che forse era uno di quei soldati per noi senza nome che sono morti insieme a Lorenzo Orsetti.
Ogni mattina sul bus studenti e professori viaggiano insieme, mettendo in discussione nella pratica le gerarchie e le rigidità ereditate dal regime e da una società tribale e patriarcale. Mohammed studente di chimica legge L’Alchimista di Paulo Coelho in arabo, Obeyda che studia per lavorare nel settore petrolifero si sforza di capire perché in Europa protestiamo contro il cambiamento climatico e Rojin vuole imparare meglio l’inglese per leggere i comunicati del Subcomandante Marcos di cui abbiamo parlato nel seminario.
Al posto di blocco all’ingresso della città sono esposte decine di fotografie di martiri, ragazzi e ragazze come loro morti con un fucile in mano. Oggi abbiamo dei libri, forse serviranno lo stesso a difendere il Rojava.
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