La letteratura che racconta le ferite
Intervista Parla la scrittrice armena Narine Abgarjan, ospite oggi a Mantova con il libro «E dal cielo caddero tre mele», per Brioschi editore
Intervista Parla la scrittrice armena Narine Abgarjan, ospite oggi a Mantova con il libro «E dal cielo caddero tre mele», per Brioschi editore
«Volevo scrivere racconti brevi che avessero come protagonisti degli anziani: è venuto fuori tutt’altro». E dal cielo caddero tre mele dell’armena Narine Abgarjan (Francesco Brioschi Editore, traduzione di Claudia Zonghetti, pp. 268, euro 18) è infatti un vero e proprio romanzo, sospeso tra storia famigliare e fantasia. «Ho sempre creduto alla magia e ai prodigi», confessa Abgarjan, che oggi sarà a Mantova ospite al Festivaletteratura.
Generazioni di vite al confino sulla cima di una montagna, lontane dalla città, nel suo libro il villaggio petroso di Maran è orfano di giovani, morti in guerra, o vittime di disastri naturali. E dal cielo caddero tre mele è la formula di chiusura tradizionale delle fiabe armene. Probabilmente anche quella che ho scritto è una fiaba e dunque ecco perché è stato scelto come titolo», spiega l’autrice.
Può dirci qualcosa sulla società armena odierna?
Come in Italia, anche lì accade che i giovani scelgano di vivere nelle grandi città e che nei piccoli paesi restino solo gli anziani. Così, il legame fra generazioni si spezza, usi e costumi della terra d’origine smettono di essere interessanti. In Armenia, c’è anche un altro motivo per cui andare via: la guerra. Sono trent’anni, ormai, che va avanti quella con l’Azerbaijan.
È il motivo per cui vive in Russia?
Se non me ne fossi andata, forse non sarei mai diventata scrittrice. Per questo sono grata a Mosca, dove vivo dal 1994. Tuttavia ho mantenuto la cittadinanza armena e in Russia ho solo il permesso di soggiorno. Non importa dove vivo: il mio cuore resta nella terra dove sono nata, nella casa dove abitano le persone che mi hanno messa al mondo. E i miei libri sono figli di quella terra.
A proposito dell’Azerbaijan, recentemente, a una giocatrice di scacchi armena è stato negato l’ingresso in Turchia a causa delle pressioni di Baku su Ankara. Il suo è ancora un paese discriminato?
È una questione cruciale e dolorosa per me, per questo cercherò di scegliere bene le parole. Le nazioni, così come gli uomini, devono essere in grado di non perdere la dignità in qualunque circostanza. Anche in tempo di guerra. Anche nei momenti peggiori della vita. Purtroppo, però, al regime di Ilham Aliyev questa cosa non riesce. Non ho problemi a definirlo fascista: Aliyev e il suo entourage non meritano qualifica diversa.
Dunque, perché ha scelto di raccontare una realtà lontana dal presente e dal passato del suo paese?
Non è l’autore che sceglie l’argomento, ma l’argomento che sceglie l’autore: questo ormai l’ho capito. Quanto al passato armeno, avevo già raccontato del genocidio in altri miei libri e in modo più autobiografico: la mia bisnonna ha vissuto 40 anni col cranio sfondato dopo essere stata colpita alla nuca dal calcio di un fucile. 40 anni di emicranie lancinanti. Ma viva. Mio bisnonno, invece, venne ammazzato.
La protagonista del suo libro, a 56 anni, resta incinta. Una situazione scomoda e curiosa per l’ambiente in cui si svolge la storia. A che punto siamo con l’emancipazione femminile in Armenia?
È un paese del sud, patriarcale e cristiano: il ruolo della donna in famiglia e nella società è frutto di secoli di immobilità. Di emancipazione femminile – da noi – si è cominciato a parlare negli anni Trenta del ’900. Le nostre nonne se la sono guadagnata briciola per briciola la parità di diritti. Ora è tutto molto più facile, ma non posso certo dire che l’Armenia è la patria dell’uguaglianza di genere. C’è ancora moltissima strada da fare.
Quanto devono i personaggi del suo libro alle persone che ha conosciuto nella sua vita in Armenia?
Tutto: sono le persone tra cui sono cresciuta. La mia generazione è stata allevata dai nonni. Della mia, ricordo che cuoceva il pane, lo tagliava in due quand’era ancora caldo, lo spalmava di burro, ci spezzettava sopra un po’ di brynza (formaggio di pecora armeno, ndr). Ci aggiungeva un bel po’ di erbe, poi lo chiudeva. A quel punto faceva delle belle fettone e le distribuiva ai nipoti e noi andavamo a mangiarle sull’albero di gelso che c’era nel cortile di casa nostra. Ci piazzavamo lì, gustavamo quel pane squisito con le gambe penzoloni e guardavamo il mondo da lassù.
La versione originale del romanzo è uscita in Russia nel 2015. Qui in Italia nel 2018. Che effetto le fa parlarne a distanza di qualche anno?
È commovente, non ho mai sognato di diventare scrittrice. Il mio primo libro è uscito che avevo 39 anni. Perciò, tutto quello che mi è successo negli ultimi nove è un vero miracolo, per me. Stento ancora ad abituarmi all’idea di essere letta, tradotta e persino portata in scena. A volte dubito che stia succedendo a me.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento