Non è stata una metafora azzeccata. Giorgia Meloni, nel post scriptum con cui ha annunciato la fine della relazione con il compagno Andrea Giambruno, per sottolineare la propria capacità di tenuta contro chi trama per indebolirla colpendola anche negli affetti, ha evocato il famoso proverbio latino «Gutta cavat lapidem» (La goccia scava la pietra) dicendo che, alla fine, la pietra resta pietra e la goccia è solo acqua.

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Ci permettiamo di dissentire perché è vero esattamente il contrario, ovvero che l’insistenza con cui l’acqua percuote un sasso alla fine lo scalfisce, come ben sanno quelli che abitano vicino a un fiume e vedono l’incessante lavorio delle correnti sulle pietre che dall’acqua vengono levigate, fessurate, smussate, spostate. O come sanno altrettanto bene quelli che hanno infiltrazioni in casa. Giusto pochi giorni fa, ho colto su un autobus la conversazione fra due signore. Una raccontava all’amica il disastro che da anni provoca nel palazzo in cui lavora una perdita d’acqua di cui nessuno è ancora riuscito a individuare l’origine. «Riparano di qua e di là, intervengono di su e di giù, ma le macchie di umidità sono sempre lì e prima o poi verrà giù qualche cosa», diceva affranta dall’odore di muffa che si sente entrando in certe stanze.

SE QUEL «GUTTA CAVAT LAPIDEM», inventato e citato, come ci ricorda la Treccani, da Lucrezio, Tibullo, Ovidio e Seneca, ha ancora oggi un così forte valore evocativo, è perché dice il giusto. Dopo anni che una goccia colpisce una pietra, la pietra si consuma e l’acqua vince perché l’acqua non è solo acqua. L’acqua è capace di tutto. L’acqua si infila in fessure invisibili, penetra silenziosa in ogni meandro, si apre varchi dove meno te l’aspetti e se una goccia cade imperterrita sullo stesso punto per anni, costruisce paesaggi che gli speleologi conoscono bene.
Ritenersi una pietra derubricando l’acqua a una fraschetta, per un politico, in questo caso politica, svela una postura culturale sassosa, appunto. Dice che ci si identifica più con la durezza che con la duttilità, con la resistenza stolida che con la fluidità, con il muro grintoso che con un ruscello sinuoso, che si predilige la contrapposizione intransigente all’ascolto.
Il motto più calzante, in questo caso, sarebbe stato un altro, ovvero «Frangar, non flectar» che significa «Mi spezzerò, ma non mi piegherò», ma è un detto bifronte nel senso che se da una parte indica la capacità di resistere alle tempeste flettendosi, dall’altra evoca la possibilità di rompersi e ammette, sotto traccia, che è in corso una dura battaglia contemplando la possibilità di perderla.

AI MENO GIOVANI di noi, quel «Mi spezzo, ma non mi piego» fa subito venire in mente l’iconica minaccia «Io ti spiezzo in due» che Ivan Drago pronunciava contro Rocky Balboa, in Rocky IV, prima dell’incontro. Drago era l’incarnazione hollywoodiana dei cattivissimi russi che, pur avendo a disposizione un corpo/macchina infernale, soccombevano ai buoni, eroici e più astuti americani. Poi, noi italiani ci mettemmo del nostro con il doppiaggio trasformando l’originale «I must break you» (Ti devo rompere) in quella frase lievemente sgrammaticata che aggiungeva al cattivissimo russo l’immagine di uno che, oltre a essere grande e grosso, era pure un po’ scemo e pronunciava sbagliato.
Se si vuole evitare che la gutta faccia danni alla lapidem, servono pronti lavori di idraulica, drenaggi, deviazioni, impermeabilizzazioni. Se devi farli in casa basta rivolgersi a un’impresa capace, se invece ti trovi le perdite in politica, la frana è dietro l’angolo, anche se sei un sasso durissimo.

mariangela.mianiti@gmail.com