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La gatta Mefis è tornata

La gatta Mefis è tornataRossana Rossanda con la sua gatta

La favola Rapida e felina, in fuga tra il verde, con un misterioso vulcano da difendere

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 26 settembre 2020

Mefis guardò fuori dalla finestra. La grossa gatta nera con il collarino di cuoio elegante gettò l’occhio su quello che poteva vedere dalle finestre di quel terzo piano dove il grande giardino esterno entrava con la sua luce, con tre pini giganti e tante aiuole di mortella e fiori. Annusò l’aria bloccata dalle vetrate del davanzale. Annuì che c’era un dentro e un fuori e che quel fuori avrebbe dovuto proprio conoscerlo. Non era come il giardinetto della casa di Parigi dalla quale veniva. Quel terzo piano era una «casa di passaggio», così aveva sentito dire, perché poi avrebbero traslocato in una casa tutta per loro. Per lei, per la sua «signora» e per la fedele Maria. A Parigi c’era solo un grande, elegante portone verde che escludeva la casa dal lungosenna; in quel giardinetto aperto lei usciva veloce per sdraiarsi sotto una gigantesca magnolia che sbocciava di bianchi, carnosi fiori profumati.

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L’ospite della casa di passaggio era una signora molto bella, troppo bella. E molto inafferrabile. Per Mefis che l’aveva conosciuta in quei mesi, era come un uccello. Oggi era in un posto, domani in un altro. Scendeva da un treno per prendere una nave per correre su un aereo. E che quando era a casa smaniava, organizzava, spesso sostenuta da un bastone che le evitava una delle sue troppe cadute. Pareva senza gambe. Quel suo continuo essere in movimento, come pinnando dentro un grande mare la faceva apparire come una sirena. Una sirena troppo vicina alla «sua» signora. Che spesso aveva sorrisi e parole solo per lei. Sì, Mefis era gelosa.

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Mefis così rinchiusa non ci poteva proprio stare. Provava a dirlo in mille modi. Ogni gatta sa come fare. Così miagolava dispiaciuta quando poteva accanto alla sua signora, che non capiva e continuava ad accarezzarla come se niente fosse. Oppure le si accostava e strusciava…«Così chiusa non ci posso stareeee…». La signora aveva deciso di venire via da Parigi in tutta fretta dopo avere abitato in quel luogo riparato per molti anni. Si era convinta all’improvviso che quella città tanto amata non avrebbe dato più nulla ai suoi occhi stanchi, soprattutto dopo la perdita del suo «signore», un uomo tranquillo e dolce con cui Mefis aveva lungamente parlato e giocato. Mefis e la signora erano rimaste sole. Sole con Maria che aiutava la signora a camminare, perché ormai, piegata in due come un albero sotto una tempesta di vento, non gliela faceva più a stare dritta ed era finita su una sedia a rotelle. La gatta era severa verso il futuro che le aspettava…che ci facevano in una città nuova? E perché quel posto sarebbe stato diverso da Parigi che «non poteva dare più nulla»?

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La signora parlava a tutti quelli che venivano a trovarla. Erano tanti e spesso molto più giovani di lei che ormai quasi non aveva più età. Chiacchieravano del vuoto che li circondava. La signora insisteva…rimproverava…raccomandava. Quelli che venivano a trovarla si dividevano, questo Mefis l’aveva capito, tra chi ricordava solo i bei tempi passati, quelli che invece pensavano a cose nuove da fare e infine i pochissimi che arrivavano soltanto per stare con lei. Ma tutti sembravano in fuga, cercavano qualcosa che, a quanto pare, non c’era più. Mefis li annusava, ma non veniva messa al corrente di nessuna delle intenzioni che uscivano da tutte quelle parole che sentiva. Così si allontanava quasi a sottolineare la sua estraneità: «Se non mi vogliono allora me ne vado». Certo, la soluzione poteva essere proprio quella… fuggire… Quando poi tutti quei giovani scomparivano per giorni, restavano di nuove sole Mefis, la signora e Maria. In quella casa abbastanza grande dove erano ospiti benvolute di un’altra signora, bella e sempre indaffarata, ma dove l’orizzonte non si vedeva dal giardino diviso dalle inferriate. Stavano ogni giorno e ogni notte, chiuse, rinserrate.

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Mefis tra sé e sé si domandò se poteva ancora resistere. Doveva fuggire. Aveva due possibilità di fuga: dalla porta, ma Maria era così attenta ogni volta che usciva per la spesa a richiuderla subito. Oppure prendendo la via dei balconi dalla quale si poteva saltare facilmente nel giardino. La spinta decisiva arrivò a Mefis un bel giorno dall’esterno. Da un gatto randagio che aveva preso l’abitudine di venire a mangiare piccole lucertole che si annidavano intorno ad cactus gigante sempreverde che sembrava finto e che viveva sul balcone. Il gatto randagio guardando dentro la casa era come se le stesse dicendo: «Ma che ci fai chiusa lì dentro, esci fuori e acchiappami se puoi…». E spesso lasciava parti delle prede catturate per richiamare l’attenzione. Mefis pensò: «No, dal balcone non si può fare, la vetrata è sempre chiusa».

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La signora e Maria si accorsero degli strani colloqui tra la gatta e il gatto randagio. La signora alla scrivania aveva ricominciato a battere sui tasti del computer i suoi messaggi al mondo in modo febbrile, perché il mondo ancora aspettava le sue parole…ma sempre all’insaputa della gatta. Un bel mattino Maria decise di scacciare il gatto randagio, almeno per portare in salvo il ficus e per la pulizia del balcone…
Troppo tardi. Il ficus si era rinsecchito e andava sradicato e buttato, lasciando per il momento sul balcone il vaso pieno di terra vecchia con un bel buco nel mezzo. Sembrava davvero un cratere. Adagiò poi la signora sulla sedia a rotelle per la solita, unica passeggiata all’esterno.

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L’ascensore discese lento, la carrozzella ne uscì sospinta da una ignara Maria. E fu un attimo. Appena si schiuse il portone del palazzo del di legno e vetri, Mefis con un balzo saltò fuori e corse veloce verso i sassi del giardino, poi si voltò a guardare con aria di sfida sia la signora che rimase senza parole dal dolore, sia Maria che, incredula, lanciò un grido di lamento e di rimprovero: «Mefis dove vai…Mefis vieni subito qui…Mefis così vuoi bene alla signora…così…povera signora…Mefis cattiva…Mefis». Vista l’inutilità del richiamo, Maria rientrando con la carrozzella e la signora, lasciò sul balcone una grossa ciotola piena d’acqua e una stracolma di croccantini e che piacevano tanto alla gatta e che potevano sfamare anche il gatto randagio che sicuramente stava con lei.

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Un’altra notte senza Mefis, pensò la signora. Chissà nel pericoloso buio che c’era fuori quante minacce stava subendo, quante paure la facevano fuggire e quante ombre pesavano sulla sua sicurezza. Eppure se lei o Maria avessero guardato appena al di là delle inferriate, avrebbero visto una luce che veniva da un punto preciso del balcone che illuminava il giardino e gli alberi fiocamente. Nel vaso di ficus il buco era diventato davvero un cratere, che ribolliva e che aveva formato le sue creste, con al centro il fuoco di una piccola brace, fumava proprio come fanno i vulcani. Un vulcano bambino che era nato sul balcone della signora, che viveva di vita propria dentro un vaso. Non metteva paura, era piccolo come un fiore ma faceva capire che prima o poi avrebbe eruttato di rabbia repressa da troppo tempo. Intorno a quel mistero, sazi per la mangiata che si erano fatti dei croccantini, stavano acquattati Mefis e il gatto randagio. Eppure i gatti avrebbero dovuto temere tutto quel fuoco. Però erano incuriositi, allegri, in silenzio e soprattutto al caldo del fuoco delle piccole eruzioni di lapilli che, ricadendo dentro il grande vaso, illuminavano i loro profili. Era come se il vulcano bambino in quel modo parlasse: «Sono piccolo ma acceso, venite a riscaldarvi».

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Ora non bisognava farsi trovare. Pioviccicava. Fuori il tempo era senza tempo…sapete quella stagione che rimane indecisa sulla soglia d’un nuovo, inaspettato freddo inverno che vi gela? Ma dove nascondersi, senza però perdere di vista la casa e le sue ombre come punto di riferimento? E avendo come bussola il piccolo vulcano nel vaso che di giorno si mostrava spento? Mefis cominciò a camminare in giro, a raggiungere il grande cancello d’uscita del giardino. Forse non voleva più fuggire, e poi dove stavano gli anfratti di quella nuova, grande città dove potersi rintanare? Aveva visto che uno dei tre grandi alberi del giardino aveva un nodo scavato, una specie di grotta. Saltò, si arrampicò e si nascose. Ora Maria era uscita di nuovo e la chiamava: «Mefis, bella…dove sei, torna a casa, …mtzumtzumtzu…», faceva proprio così. Durò un’ora, poi rientrò trafelata. Ora Mefis si sentiva veramente sola.

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Fu convocata subito una riunione importante. Accorsero quelli che parlavano di cose antiche, quelli che volevano affrontare nuove avventure e anche coloro che volevano solo stare con la signora. Qual era il punto? La signora minacciava di non traslocare più nella nuova, definitiva casa, al primo piano all’altra parte della strada se non si fosse ritrovata la gatta. Ritrovarla era importante per il suo equilibrio. «Accarezzarla – disse – è per me l’unica consolazione e misura del tempo». Quella gatta teneva in piedi passato, presente e quel poco di futuro che le rimaneva. Passato, presente e futuro che riguardavano i tanti visitatori della casa. Compresa la bella signora ospite, sempre indaffarata. A cercare Mefis venne impiegato prima un poliziotto, poi un vigile del fuoco, poi la protezione degli animali, poi una famosa gattara. Nulla da fare. Mefis non si trovava ed era sparito anche il gatto randagio. Fu Maria a quel punto a proporre, convinta, quella che a tutti parve come l’ultima occasione:«“Ci vuole un mago, il mago Polifone».

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Il mago Polifone * era un clown, attrazione del piccolo circo che su uno spiazzo non lontano che degradava dal monte, svettava con la sua tenda bianca e rossa ad un chilometro appena dalla casa. Era famoso perché «addestrava» in modo originale gli animali e per questo accorrevano i bambini a vederlo. Il suo metodo consisteva nel mettere gli animali dalla parte del domatore e viceversa. L’animale insomma era lui, e se il cane abbaiando gli diceva di abbaiare e scuotere la coda, lui carponi abbaiava e scuoteva la coda; se la papera starnazzava e correva, lui correva e starnazzava; e se un gatto fuggiva dal circo, lui aveva dimostrato di ritrovarlo fuggendo con lui e poi tornando insieme. E gli applausi fioccavano. Maria l’aveva conosciuto un giorno che era andata a fare la spesa, quando il mago, accompagnato da un nugolo di gatti e di cani che non lo lasciavano mai, si era offerto di aiutarla a portare le pesanti borse e l’aveva riaccompagnata come fosse una figlia.

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Il clown arrivò un bel giorno vestito da gatto, con tanto di coda e baffi. Salutò la signora e Maria e chiese di essere lasciato sul balcone finché non avesse ritrovato Mefis, con tante confezioni di croccantini per i gatti e molte bottiglie d’acqua a disposizione. La prima notte fu infruttuosa, nonostante i richiami dell’uomo nessuno si avvicinava all’intruso mascherato, né Mefis, né il gatto randagio. Per timore, anche il vulcano bambino decise almeno per quella prima notte di non rivelarsi non accendendo dentro il grande vaso il fuoco della sua lava. Ma la seconda notte avvenne la scoperta. Polifone stava quasi per addormentarsi quando si accorse dell’incredibile borbottio che veniva da un vaso che sembrava vuoto. Guardò dentro e vide un cratere acceso, lapilli che esplodevano, un rivolo di lava che fuoriusciva lambendo gli orli del vaso. Fu a quel punto che vide saltare dall’albero sul balcone la grossa gatta nera e il suo amicone randagio. Confidando nell’aspetto innocuo di quel gattone-uomo ma consapevoli che ormai il segreto del piccolo vulcano nel vaso apparteneva anche a qualcun altro, i due gatti proposero una trattativa, convinti che quella meraviglia non dovesse essere rivelata. Mefis sarebbe tornata a casa, dentro la casa: sentiva che c’era un legame tra i silenzi e le ombre delle stanze e il fuoco appena fuori del nano-vulcano. Sarebbe tornata più libera di uscire e di frequentare chi voleva, solo a condizione che l’esistenza del vulcano bambino rimanesse un segreto. La signora non doveva nemmeno sospettare che appena fuori dagli interni della casa esistesse un tale miracolo della natura. E nemmeno Maria. Polifone accettò con un sorriso. Anche stavolta era riuscito nella sua «magia».

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Detto fatto, dopo tre settimane di fuga, e tante notti passate all’aperto in piena libertà, Mefis tornò serena nella casa a sdraiarsi accanto alla signora che ricominciò ad accarezzarla come se nulla fosse accaduto. Un sorriso così, una luce di vittoria, sul volto stanco della signora nessuno l’aveva visto mai. Ora poteva finalmente traslocare nel nuovo appartamento. Tutti venivano da lontano a trovarla per vederla rinata. Passato, presente e quel poco di futuro che le rimaneva stavano nel delicato pelo della gatta. Il randagio da quel giorno in poi trovò da mangiare e bere puntualmente sul balcone. Quanto al piccolo vulcano, di giorno era spento come da epoche millenarie, ma di notte borbottava, s’infuocava, eruttava tutta la rabbia dei silenzi degli interni della casa.
A sparire invece stavolta fu Polifone. Il circo aveva chiuso le tende e da lontano adesso si vedeva solo un tratto erboso della montagna che degradava verso il fondo valle e una via piena di traffico. Nessuno l’aveva ringraziato ma era giusto così, in fondo quello era il suo lavoro: ascoltare le ragioni degli animali, anche di quelli in fuga, scoprire meraviglie di ferro e fuoco dentro un vecchio vaso di fiori, tenendo sempre in cuor suo ogni segreto.

*Il mago Polifone è Filippo Maone

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