La doppia valenza della «saga» Simon & Schuster
Rubriche

La doppia valenza della «saga» Simon & Schuster

Express La rubrica delle culture che fa il giro del mondo
Pubblicato circa un anno faEdizione del 17 agosto 2023

Una decina di giorni fa, mentre buona parte degli abitanti dell’emisfero nord si trovavano su una spiaggia o sognavano di andarci, alcuni uomini d’affari non così sensibili al richiamo delle brezze marine hanno firmato a New York un accordo cruciale per l’editoria americana, e non solo. In data lunedì 7 agosto, infatti, la Paramount Global ha annunciato di avere finalmente trovato l’acquirente giusto per il gruppo Simon & Schuster, uno dei Big Five che dominano il mercato del libro negli Stati Uniti (gli altri sono Penguin Random House, HarperCollins, Macmillan e Hachette).

Ad acquisire per 1,62 miliardi di dollari questo gigantesco gioiello, che propone nei cataloghi dei suoi marchi autori diversi come Stephen King, Ernest Hemingway, Jackie Collins e Ursula K. Le Guin, non è però un altro editore in vena di espansione, ma il fondo di investimento Kohlberg Kravis Roberts & Co, meglio noto come Kkr. Lo stesso, per dire, che sempre in questi giorni è stato dato come quasi sicuro compratore della rete Tim, insieme al ministero italiano dell’economia e delle finanze.

La notizia ha quindi una doppia valenza. Da un lato si chiude la saga della vendita di Simon & Schuster (chi ha interesse per le sorti dell’editoria ricorderà che la prima a farsi avanti per acquisire il marchio era stata la concorrente Penguin Random House, ma la fusione era stata bocciata nel novembre 2022 dalla Corte d’appello degli Stati Uniti per il District of Columbia con una sentenza definita dal New York Times come «una vittoria significativa per l’amministrazione Biden, che cerca di estendere l’applicazione delle norme antitrust»). Dall’altro lato, ed è l’aspetto più interessante, la vicenda conferma l’interesse crescente dei fondi di investimento verso l’editoria e il mondo del libro in generale.

Ben prima di Kkr, infatti, un’altra compagnia americana, Elliot Investment Management, ha acquisito nel 2018 la maggiore catena di librerie del Regno Unito, Waterstones, e l’anno dopo la sua equivalente statunitense, Barnes & Noble. A capo di entrambe è James Daunt, geniale libraio ex-indipendente, capace (finora) di smentire i pronostici di chi pensava che le due catene sarebbero state rapidamente e dolorosamente «risanate» e poi rivendute al miglior offerente.

E a Simon & Schuster cosa capiterà? Su «Publishing Perspectives» Porter Anderson evidenzia una frase del memo di Jonathan Karp, amministratore delegato del gruppo, ai dipendenti: «Conosco e ammiro un membro della squadra di Kkr, Richard Sarnoff, da due decenni. In precedenza, Richard è stato vicepresidente esecutivo di Random House e conosce le sfumature del settore librario meglio di chiunque altro io conosca». Come a dire che i nuovi proprietari non sono anonimi tagliagole, ma persone competenti, che hanno a cuore il sistema editoriale. E ancora gli ottimisti sottolineano un punto dell’accordo, in base al quale – spiegano sul «New York Times» Elizabeth A. Harris, Lauren Hirsch e Benjamin Mullin – i dipendenti riceveranno una quota di partecipazione nella società, un modello applicato con successo da Kkr con altre aziende acquisite e che, sostengono i dirigenti del fondo, «aumenterà sensibilmente il loro tenore di vita».
Sarà forse così, ma Agata Mrva-Montoya su «The Conversation» invita alla prudenza, citando l’esperto australiano Franscois McHardy: «Il modello dei private equity consiste nell’acquistare a sconto (come in questo caso, visto che l’offerta di Penguin Random House superava i due miliardi, ndr), tenere l’azienda per 4-7 anni mentre la ‘ristrutturano’ (cioè riducono i costi, vale a dire la forza lavoro, le attività e gli investimenti) e infine rivenderla con profitto». Inutile aggiungere altro: chi vivrà, vedrà.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento