A Florence Yu Pan la versione inglese di Wikipedia dedica una pagina piuttosto sostanziosa: nata nel 1966 a New York da genitori originari di Taiwan, si è laureata all’università della Pennsylvania nel 1988, per due anni ha lavorato come analista finanziaria presso la banca d’affari Goldman Sachs e ha poi frequentato con risultati eccellenti la Stanford Law School. Segue una ventina d’anni di incarichi e di successi, fra l’altro, presso il dipartimento della giustizia e del tesoro (gli equivalenti statunitensi dei nostri ministeri), e arriviamo al 2009, quando il presidente Obama la nomina giudice associato presso la Corte Superiore del District of Columbia. E l’ascesa continua: saltando qualche passo, basti dire che nel maggio di quest’anno Biden assegna a Florence Yu Pan il posto alla Corte d’appello degli Stati Uniti per il District of Columbia lasciato libero da Ketanji Brown Jackson, nel frattempo passata alla Corte suprema degli Usa.

Ma perché parlare di questa pur brillantissima carriera forense in uno spazio dedicato all’editoria? Semplice: con una sentenza che ha infastidito alcuni e rallegrato moltissimi, lunedì scorso Pan ha impedito a Penguin Random House, il più grande gruppo editoriale degli Stati Uniti (di proprietà della tedesca Bertelsmann) di acquisire uno dei principali gruppi rivali, Simon & Schuster, anch’esso parte – con Macmillan, Hachette e HarperCollins – dei Big Five, i cinque marchi che insieme occupano la percentuale più importante del mercato librario negli Usa. Si tratta – scrivono sul New York Times Elizabeth A. Harris e Alexandra Alter – di «una vittoria significativa per l’amministrazione Biden, che sta cercando di ampliare i confini dell’applicazione delle norme antitrust».

Una sentenza importante anche al di fuori dell’ambito editoriale, insomma, ma importantissima all’interno dell’industria del libro negli Stati Uniti e non solo: come ricorda Miguel Jimenez su El País, quando il Dipartimento di giustizia ha annunciato la sua azione contro la fusione nel novembre 2021, il procuratore generale Merrick Garland non ha esitato a usare parole drammatiche: «I libri hanno plasmato la vita pubblica americana nel corso della storia della nostra nazione e gli autori sono la linfa vitale dell’editoria americana, ma solo cinque editori controllano questa industria. Se il più grande editore di libri al mondo sarà autorizzato ad acquisire uno dei suoi maggiori rivali, avrà un controllo senza precedenti sul settore».

Non a caso il processo, che si è tenuto ad agosto, è stato seguito con molta attenzione dai media, soprattutto quando è apparso a testimoniare Stephen King, che pubblica con una delle circa cinquanta sigle sotto il capace «ombrello» Simon & Schuster (per Penguin Random House si arriva al centinaio) e che tuttavia si è dichiarato contrario alla fusione, perché – ha detto in sostanza l’autore di Misery e di It – i giovani autori, per i quali è sempre più difficile guadagnare abbastanza per vivere del proprio mestiere, ne sarebbero stati fortemente danneggiati. Inutile precisare che lo scrittore ha accolto con gioia la sentenza: «Un ulteriore consolidamento dei gruppi editoriali – ha dichiarato King – avrebbe causato un danno lento ma costante a scrittori, lettori, librerie indipendenti e piccole case editrici. L’editoria dovrebbe concentrarsi maggiormente sulla crescita culturale e sui risultati letterari e meno sui bilanci aziendali». Come non essere d’accordo? Questo è però solo il primo round, perché – come del resto era prevedibile – Penguin Random House ha già annunciato che presenterà un appello. Non resta che incrociare le dita e brindare alla valorosa giudice Pan.