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La dolorosa bellezza di Marisa Busanel

La dolorosa bellezza di Marisa BusanelMarisa Busanel

FemmineFolli Una domenica di marzo, una mostra e la scoperta di un quadro con un ritratto dell'artista italiana. Donna forte, comunista, dalla vita avventurosa che non conosceva vie di mezzo né compromessi

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 24 marzo 2016

Una tranquilla domenica di marzo. Picnic di mamme con figli. Grande fontana con acqua stagnante e muschio galleggiante. Si chiacchiera di massimi sistemi, medi, piccoli. A un certo punto, mi scappa la pipì. Dall’altro lato dello stradone c’è un museo ad ingresso gratuito. Mi viene suggerito di usarne la toilette. Con la scusa mi vedo pure una mostra. Un quadro mi incuriosisce subito: un vestito verde attaccato a forza su un rettangolo stretto e lungo. Leggo la targhetta: «Marisa Busanel, Bersaglio verde, 1965».

Ma certo! La Busanel l’ho conosciuta anch’io, brevemente, accanto al pittore Giancarlo Limoni, amico di famiglia. Ricordo che, tra gli anni 50 e 60, è stata compagna, forse musa, di Leoncillo, magnifico scultore umbro, in fase di celebrazione per via del centenario dalla nascita (in corso una mostra a Montelupo Fiorentino e una ad aprile Milano). Una donna artista italiana, una delle poche temerarie. La ricordo, già donna matura (è morta nel 1990 a 56 anni), vestita di verde, assai truccata, costantemente con la sigaretta in una mano e nell’altra un bicchiere. Bella e beffarda.

Chiamo Limoni e lo incontro, alla ricerca della storia di questa donna maledetta dell’arte. Ci sediamo a un bar, una delle situazioni più amate da Giancarlo. Mi ha portato del materiale cartaceo, l’album di fotografie, un catalogo. Lui prende un caffè, io un thè. Parliamo di lei. Marisa era veneziana, aveva provato a fare l’attrice da giovanissima, ma presto si era scocciata. Pittrice autodidatta, colta lettrice appassionata di Dostoevskij e Nietzsche, completamente sprovvista di senso pratico, una donna che non conosceva le vie di mezzo né i compromessi, che viveva la bellezza come una maledizione. Una notte del febbraio 1969 al Rouge et Noir, un nightclub romano, Limoni, abbacinato dalla sua vista, se la fece presentare da amici comuni e, a fine serata, le chiese di accompagnarla a casa: fu una lunga passeggiata a piedi da piazza del Popolo ai Parioli attraverso villa Borghese. Limoni ricorda: «Nun c’avevo nemmeno i soldi per il taxi». Mi racconta il grande amore della sua vita, a cui pensa ogni sera. Forse per questo lo sento edulcorato, felice del mio interessamento ma meno spontaneo e aneddotico del solito.

Passiamo insieme un paio d’ore. A casa, però, non mi pare di avere informazioni sufficienti. Allora cerco altre fonti per descrivere questa donna forte, comunista, fidanzata per dieci anni con uno scultore di successo di 18 anni più grande di lei e i successivi vent’anni compagna di un pittore di 14 anni più giovane. La leggenda narra che, ad una festa stile «dolce vita», avesse respinto Marlon Brando, troppo arrogante nel corteggiamento; che un amante in un litigio le avesse rotto un labbro e poi non si fosse più potuto avvicinare ai luoghi della mondanità artistico-letteraria dell’epoca per paura di una vendetta; che fosse stata trattenuta dalla polizia di frontiera all’aeroporto di Londra perché, insieme al passaporto, aveva presentato la tessera del Pci.

I suoi quadri sono drammatici, dolorosi, autentici: vestiti usati attaccati su tavole di casse da imballaggio, visi di donna, nudi di schiena, autoritratti senza volto, strappi ricuciti come sfregi. Dimenticati, più o meno, dalla storia dell’arte contemporanea. Chi l’ha conosciuta, però, la porta dentro di sé come un cammeo rinascimentale, una cicatrice che rammenta che si è vissuto o una pietra dura portafortuna, da tenere in tasca e toccare al bisogno, per darsi sicurezza.

fabianasargentini@alice.it

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