È nuovamente all’ordine del giorno in Coreper (il Comitato dei rappresentanti permanenti dei governi presso la Ue) oggi la votazione sul testo finale della direttiva europea sul dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità. La direttiva dovrebbe completare il quadro normativo europeo sulla trasparenza e i doveri di due diligence rispetto alle catene globali di approvvigionamento, con lo scopo di prevenire le violazioni dei diritti umani e dell’ambiente che si verificano al loro interno. Dopo l’accordo nel trilogo europeo, la votazione finale era attesa per il mese di febbraio, ma è stata ripetutamente rinviata a causa delle posizioni assunte prima da parte della Germania, e poi di altri stati membri.

Molto verosimilmente si tratta dell’ultimo tentativo affinché il Consiglio trovi un compromesso e non disattenda le richieste di società civile, cittadini e imprese. È utile allora provare a fare chiarezza.

Innanzitutto, dal punto di vista politico, è un fatto che il ribaltone tedesco in Coreper non sia condiviso da tutto il governo di Berlino. È solo il Partito liberale democratico (Fdp), partito di minoranza della coalizione, ad aver sollevato il veto. Il resto della coalizione sostiene la direttiva. Soprattutto, è del tutto fallace la narrazione secondo cui la Germania avrebbe abbandonato la sua linea in materia di responsabilizzazione delle catene di fornitura. In quel paese, dal 2021, vige una legislazione nazionale sulla due diligence in materia di diritti umani e tale normativa continua ad applicarsi con un impatto anche sulle aziende italiane.

Nel merito, poi, non esiste alcuna prova che la direttiva possa mettere a rischio la competitività delle industrie italiane ed europee. Non è così perché una normativa armonizzata Ue avrebbe il pregio di ridurre i costi del dumping sociale e ambientale che spesso danneggiano le aziende italiane ed europee a vantaggio di imprese extra-Ue.

La creazione di un terreno di gioco comune allineerebbe le diverse normative già esistenti con il vantaggio di ridurre i costi di compliance. Anzi, proprio per evitare i pericoli di un mosaico di obblighi derivanti dai singoli ordinamenti nazionali, la direttiva dovrebbe fissare standard comuni, accrescendo la certezza del diritto per le imprese e riducendo i costi di compliance.
Una circostanza, questa, riconosciuta anche in ambienti ‘vicini’ alle stesse imprese, molte delle quali, peraltro, si sono espresse, già in tempi non sospetti, a favore della direttiva con posizionamenti anche pubblici. Gli studi che hanno preceduto l’iter legislativo danno conto del fatto che il 75% delle imprese afferma di ritenere una normativa europea in questa materia di beneficio per il settore privato. Ciò che si teme, piuttosto, è – e direi giustamente – il moltiplicarsi di legislazioni nazionali recanti obblighi contrastanti. Questo è esattamente l’obiettivo specifico dell’intervento del legislatore europeo.

Non corrisponde a realtà nemmeno la narrazione secondo cui la direttiva costituirebbe una minaccia per le Pmi italiane. Ciò per il semplice motivo che, a loro, la direttiva non si applica: il testo le esclude esplicitamente. Solo le imprese europee di maggiori dimensioni saranno direttamente interessate da queste disposizioni.

La direttiva piuttosto rafforzerebbe le aziende di medie e piccole dimensioni italiane in quanto la sua applicazione comporterebbe una suddivisione più equa di costi con le grandi imprese. Ma soprattutto essa aiuterebbe a tutelare il ‘made in Italy’ da quella odiosa forma di concorrenza sleale effettuata da imprese extra-europee che producono beni o servizi grazie allo sfruttamento del lavoro sottopagato o di quello minorile.

In sintesi, si può ritenere che la direttiva costituirebbe un pericolo per l’Italia e per il suo sistema imprenditoriale? In realtà, molte delle criticità sollevate dagli altri governi europei non dovrebbero avere ragione di esistere per noi. Le grandi imprese italiane già sono soggette a obblighi di rendicontazione sulle informazioni di carattere non finanziario e tra pochi anni – entro il 2027 – essi si estenderanno, anche senza direttiva, ai diritti umani e all’ambiente. Se poi consideriamo che, da noi, meccanismi di due diligence analoghi esistono già in base sia alla normativa sulla sicurezza sul lavoro sia a quella sull’eliminazione della violenza e delle molestie sul luogo di lavoro, o anche in base al decreto 231/2011 sulla responsabilità amministrativa degli enti, è facile constatare che, per il nostro paese, la marcia verso la sostenibilità sarebbe più agevole e veloce.

Insomma, sostenendo la futura direttiva potremo, una volta tanto, essere noi ad esortare i nostri cugini tedeschi a fare i compiti a casa.

* Ricercatore Cnr-Iriss, esperto di Business and Human Rights