In una parola
Rubriche

La cultura che produce la violenza

In una parola La rubrica settimanale a cura di Alberto Leiss
Pubblicato 4 mesi faEdizione del 25 giugno 2024

Due giorni di discussione intensa sulla “violenza di genere” e sulla “violenza maschile contro le donne” (dove il richiamo al “genere” – parola sulla quale il confronto è complesso e conflittuale – può evocare il continuum esistente tra varie forme di violenza, da quella transomofobica fino alla violenza bellica). In un cinema di Roma, il “Nuovo Aquila”.

Iniziativa di Maschile plurale, legata al progetto “Contrastare la violenza di genere trasformando la cultura che la produce”. Sostenuto con l’8 per mille dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai.

Una trentina di interventi di uomini e donne, in presenza e via zoom, e la proiezione di video, documentari, interviste. Persone che hanno testimoniato l’impegno personale e quello di istituzioni e organizzazioni: dal Parlamento (Commissione di inchiesta sui femminicidi) alle Università (Urbino, Enna, Parma, Iulm…) all’associazione Dire (centri antiviolenza), l’Arci, Udi, Actionaid, il Tribunale di Milano, Relive (centri che intervengono con gli autori di violenze), Educare alle differenze, e giornaliste e giornalisti di varie testate. L’ integrale dei lavori – venerdì 21 pomeriggio, sabato 22 mattina e pomeriggio – è consultabile sulla pagina Facebook di Maschile plurale.

Non tento una sintesi.

Cito qualche concetto, parola, fatto. Lungo alcuni assi di ricerca del progetto. Si guarda alla capacità maschile di agire, finalmente con qualche efficacia, nell’affrontare il problema della violenza che esercitiamo noi.

Che cosa c’è che ancora non funziona nella comunicazione e nelle strategie di contrasto alla violenza?

E quali sono le principali criticità, le resistenze e gli errori?

Il discorso pubblico. Le reazioni della sorella e del padre di Giulia Cecchettin hanno aperto un confronto inedito sul ruolo dei maschi e sullo stato di salute del “patriarcato”. È una vera svolta? Forse sì, ma più che nel linguaggio dei media la trasformazione andrebbe cercata nella cultura delle nuove generazioni. Negli ultimi anni alcuni media si sono dotati di strumenti “ad hoc” per affrontare il mutamento delle relazioni tra i sessi. Ma restano comparti “laterali” rispetto all’informazione mainstream. La parola pubblica costringe le donne nella posizione delle vittime. Un soggetto debole? Invece è la loro forza e libertà che scombussola fino al delitto la soggettività maschile. Si parla tanto delle leggi (che sono anche buone). Ma i soldi per finanziare chi si occupa del problema – a partire dai centri antiviolenza – il governo di destra non li trova. Se non per sostenere i “pro-vita”.

La consapevolezza maschile. Crescono i gruppi di uomini che si interrogano su un altro modo di vivere corpo, desiderio, relazioni con altre (e altri). Moltiplicano le loro iniziative pubbliche. Ma fa notizia la “bravata” di alcuni studenti del liceo Visconti di Roma, che affiggono a scuola un elenco di ragazze con cui c’è stato del tenero. Tutto come una volta? Fa meno notizia che ragazzi di altri due licei, il Tasso e il Righi, abbiamo dato vita a un “collettivo scolastico decostruiamoci”. Uno “spazio maschile – dicono – con incontri e dialoghi su come il patriarcato ci riguarda”.

La formazione. Basterà, ammesso che si faccia mai (i propositi, per quanto discutibili, strombazzati dal governo sono già dimenticati) qualche ora di “educazione sentimentale” o addirittura “sessuale” a scuola? O non bisognerebbe rivoluzionare tutti i programmi che ancora trasmettono una tradizione improntata dal maschile? E poi che si fa nelle aziende, nelle famiglie, in tutto il mondo associativo? Nelle culture diverse prodotte dall’immigrazione?

La ricerca continuerà.

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