Cosa succede quando il lavoro (salariato) finisce? Il ricco diventa più ricco e il povero sempre più povero – e più ricattabile come ci insegnano i femminismi, che dagli anni Settanta si confrontano sulla messa a valore della riproduzione sociale. Riparte da qui la nostra ricognizione iniziata 26 anni fa (La democrazia del reddito universale, Manifestolibri 1997 -2023) e atterrata oggi, dopo non pochi sommovimenti politico-sociali e più di una batosta, sull’«odio dei poveri» (R. Ciccarelli, L’odio dei poveri, Ponte alle Grazie 2023; vedi E. Morlicchio, Lessico e genealogia del disprezzo, il manifesto 27/10/2023).

Due passaggi, un capo e una coda potremmo dire, che ben restituiscono, come leggeremo in queste pagine dedicate, quanto sia ormai «fuorigioco la ragione etica» (Franco Berardi Bifo) perché totalmente cancellato dal nostro panorama l’agire collettivo, con la conseguenza che ogni immaginario si trasforma in una guerra.
Se poi addirittura si aspira al bene dei soggetti «secondi» – o della vita – questi sono sempre visti come un fastidio, un nemico: che siano donne, giovani, stranieri, poveri (scrocconi, pelandroni, etc.), che sia l’ambiente.
È evidente come al capitalismo della «piena occupazione precaria» i numeri sembrino opportunamente invisibili: in Italia ci sono 5,6 milioni di individui in condizione di povertà assoluta, di cui 1,27 milioni sono minori.

Quel «reddito di cittadinanza», probabilmente mal concepito dev’essere simbolicamente efficace se guardiamo a come è stato velocemente depennato – e con esso 400 mila famiglie che non avrebbero diritto a tutele – dall’ideologia di quest’ultimo governo fascista. Quel «reddito» che nei suoi 4 anni scarsi di vita è costato poco più di 7 miliardi l’anno (Istat), quando 25 colossi del WebSoft hanno legalmente «sottratto» alle nostre casse 36 miliardi circa in tre anni grazie ad artifici fiscali su cui nessun governo (quelli si di lazzaroni pronti a scaricare sui cittadini le proprie opportunistiche sinecure) sia fino ad oggi intervenuto.

Non sarà il Workfare dell’istituzione pubblica a creare o mantenere posti di lavoro. Non senza politiche sui diritti e sulla fiscalità almeno. Ma neppure se si emettesse una sorta di «Daspo» contro le Intelligenze Artificiali, la tecnologia o la robotica, riprodurremmo lavoro equamente retribuito e tutelato.

Passare dallo status di «povero» a «poveri che cercano lavoro» è così, secondo Ciccarelli, il nuovo corso dello sfruttamento del «capitale umano» cui ruba il tempo della vita. Anche qui tornerei alle esperienze femministe, quando affermano che non c’è più amore che tenga neppure nello sfruttamento dei lavori di cura, e al conflitto generazionale che è lotta di classe: l’ultimo e più devastante processo di bullismo istituzionale contro le/i giovani precari, «poltroni» che non si ingegnano a trasformarsi in «imprenditori di se stessi».
È l’ideologia del self made man statunitense individualmente responsabile del proprio futuro che, però, un giorno vola in alto e quello dopo sparisce.

Il che fare? Ripartire dal reddito (di base) e contro i suoi oppositori per il superamento della condizione di povertà e per la libertà di scegliere. È il tempo della vita.