La complicità nefasta tra predatore e l’oggetto delle sue mire di dominio
Caccia, trofeo, vincitori e vinti: lì dove talvolta la fantasia sembra smisuratamente libera dalle convenzioni, ecco che la realtà la supera innescando un cortocircuito in cui il soggetto «preda» esiste in relazione al «predatore». Una complicità nefasta insita nei meccanismi più subdoli delle politiche del colonialismo e dell’imperialismo che nella nostra contemporaneità sposta le sue mire soprattutto verso l’accaparramento di terre coltivabili e l’accesso alle risorse idriche.
IN QUESTO DIBATTITO incentrato sulla memoria coloniale, la collettiva La natura e la preda. Storie e cartografie coloniali (fino al 29 maggio), nel ciclo di mostre curate da Marco Scotini al PAV-Parco Arte Vivente di Torino, realizzata con il sostegno di Compagnia di San Paolo, Fondazione Crt, Regione Piemonte e Città di Torino, si pone come segnale significativo nella rinegoziazione (attraverso le arti visive) di un presente che guarda al passato, come analizzano con una creatività corroborata da ricerche e indagini scrupolose i giovani artisti italiani Irene Coppola (Palermo 1991), Edoardo Manzoni (Crema 1993), Daniele Marzorati (Novedrate 1988) e Alessandra Messali (Brescia 1985).
IL CONCETTO DI TRAPPOLA con le sue implicazioni metaforiche è il fil rouge che unisce i lavori: dalla scrittura al video, dalla fotografia all’installazione sonora. Partendo dal fischio prolungato di un falso tordo o di un fringuello, dell’allodola o del merlo usato per attirare gli uccelli (veri) in una famigerata imboscata, Edoardo Manzoni affronta il tema dei dispositivi mimetici usati dall’uomo per attirare gli animali. Il camouflage sonoro che crea è connesso con le foto della caccia grossa in Africa focalizzate sull’immaginario occidentale promotore di uno scenario «subalterno».
L’ARTISTA SOTTRAENDO l’immagine del cacciatore bianco opera una rimozione storica della violenza coloniale, ponendo lo spettatore in una condizione di acquisizione di consapevolezza, accentuata dal suo rispecchiarsi nella silhouette del dibond. Non è poi così diversa l’appropriazione operata da Emilio Salgari attraverso la scrittura, tra gli autori d’avventura più prolifici del secolo scorso, sfruttato anche in ambito cinematografico, che come è noto non viaggiò mai.
SULLA SUA GEOGRAFIA di pura fantasia che ha fagocitato memorabili fake si è occupata Alessandra Messali nel progetto Emilio Salgari and The Tiger. A story written in Far Away Italy, Set in Guwahati 1870, realizzato nell’ambito di quattro residenze d’artista, tra il 2013 e il 2016, presso il Guwahati Research Program (Microclima), nello stato dell’Assam nell’India nordorientale. Tre romanzi di Salgari sono ambientati proprio in questi luoghi, incluso Il bramino dell’Assam (1911), in cui come sottolinea Messali tra le incongruenze oltre alla presunta presenza dei Moghul c’è la descrizione della fogna, simile a quella delle capitali europee più che alla realtà della città di Guwahati, in balia del fiume Brahmaputra.
DALL’ANALISI COMPARATA testo/contesto è nato lo spettacolo con le studentesse dell’Handique Girls College, il video documentario e, infine, il libro. Con Habitat 08°N di Irene Coppola, progetto realizzato in collaborazione con l’architetto Vito Priolo e sostenuto da Italian Council, Direzione Generale Creatività Contemporanea e MiC, ci spostiamo a Panama nel villaggio di Armila della comunità indigena Guna Yala, dove l’artista ridefinisce un codice della memoria territoriale partendo dall’affermazione Sin los habitantes no hay patrimonio: un’opera/azione politica che restituisce alla popolazione autoctona il valore del proprio patrimonio culturale.
ATLANTE DEL CORPO coloniale di Daniele Marzorati, infine, attraverso le fotografie ai sali d’argento entra negli scaffali degli archivi e nei musei di Storia Naturale per rimettere in gioco gli «ismi» come esotismo, colonialismo, orientalismo. Tra l’erbario etiopico e i tomi sul giardino roccioso inglese c’è anche l’occhio dell’elefante: l’artista va oltre la narrazione aneddotica dell’impresa di Italo Balbo che nel ’39, in visita in Kenya, uccise un elefante e una giraffa. Un trofeo di cui vantarsi, quella grande testa d’elefante con zanne e proboscide, tuttora esposta nel Museo Friulano di Storia Naturale.
CONCENTRANDOSI sul dettaglio dell’occhio l’autore conferma quel ribaltamento dello sguardo per cui Non siamo più noi a guardare l’elefante, ma lui a guardare noi.
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