Internazionale

La Colombia entra nella Nato come «partner globale»

La Colombia entra nella Nato come «partner globale»il presidente colombiano Santos e il segretario della Nato Stoltenberg

America latina Il presidente colombiano Santos: «Siamo l’unico paese dell’America latina ad avere questo privilegio». Ma il Paese, che condivide 2.200 km di frontiera con il Venezuela, ospita già sei basi Usa

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 2 giugno 2018

È con grande soddisfazione che, a pochi giorni dalla fine del suo mandato, il presidente colombiano Juan Manuel Santos – disonorando ancor di più il Nobel per la Pace di cui è stato insignito – ha ufficializzato a Bruxelles, giovedì scorso, l’ingresso della Colombia nella Nato come «partner globale». «Saremo l’unico Paese dell’America Latina con questo privilegio», aveva dichiarato alla vigilia del primo turno delle presidenziali, senza peraltro riuscire a scongiurare la pesante sconfitta del candidato da lui sostenuto, German Vargas Lleras, giunto solo quarto con un misero 7%.

TALE «PRIVILEGIO», condiviso con altri otto Paesi (Afghanistan, Australia, Iraq, Giappone, Corea del Sud, Mongolia, Nuova Zelanda e Pakistan), comporta la cooperazione con la Nato «in aree di interesse reciproco» in materia di sicurezza, fino alla possibilità di contribuire, militarmente o in altra maniera, a operazioni dell’Alleanza atlantica.

MA PER QUANTO la condizione di partner globale non comporti di per sé la partecipazione ad azioni militari della Nato, non ci sono dubbi che rappresenti una grave minaccia alla pace e all’integrazione dell’America Latina. Come denuncia il Foro de Comunicación para la Integración de NuestrAmérica (una rete di mezzi di comunicazione e di movimenti popolari della regione), l’ingresso nell’Alleanza atlantica della Colombia – che da anni ospita sei basi militari statunitensi – costituisce una clamorosa rottura con la proclamazione dell’America Latina e dei Caraibi come zona di pace, decisa nel 2014 all’Avana dal II Vertice della Celac (la Comunità di Stati latinoamericani e caraibici), a completamento di quel Trattato di Tlatelolco che, nel lontano 1969, aveva stabilito la denuclearizzazione della regione.

Era stato quello, forse, il culmine del processo di integrazione latinoamericana, quando la Celac aveva mostrato di avere tutte le carte in regola per poter diventare, per le 33 nazioni a sud del Rio Bravo, lo strumento di integrazione, di cooperazione e di pace che non aveva di certo mai potuto fornire l’Organizzazione degli Stati Americani, con la sua ininterrotta storia di legittimazione di invasioni militari e di colpi di Stato.
QUELLA proclamazione dell’America Latina e dei Caraibi come zona di pace era apparsa allora una pietra miliare nella storia della regione, stabilendo il principio della risoluzione pacifica delle controversie, dunque scartando il ricorso alla forza o alla minaccia del suo impiego, insieme all’impegno a favorire relazioni di amicizia e di cooperazione tra gli Stati della regione e con le altre nazioni.

Molta acqua è passata da allora sotto i ponti, come ha drammaticamente evidenziato, lo scorso aprile, la decisione dei governi di destra appartenenti al Gruppo di Lima (Argentina, Brasile, Cile, Colombia, Perù e Paraguay) di sospendere la loro partecipazione all’Unasur (Unione delle Nazioni Sudamericane), costituita nel 2008 con l’obiettivo di offrire ai 12 Paesi del Sudamerica uno spazio di integrazione e di unione tra i popoli in ambito culturale, sociale, economico e politico.

E ORA il «privilegio» celebrato dal presidente Santos – incurante di condizionare in tal modo la politica del suo successore – è un altro duro colpo inferto al processo di integrazione della Patria Grande, incoraggiando il processo di militarizzazione regionale e aprendo la strada a un possibile intervento della Nato sulle frontiere colombiane di Brasile, Panama, Ecuador e soprattutto Venezuela, dove, non a caso, la notizia è stata accolta con grande allarme.

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