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La cassetta degli attrezzi affettivi

La cassetta degli attrezzi affettivi – foto iStock

Habemus Corpus L’educazione affettiva si impara da piccoli, da molto piccoli. Si impara ad accarezzare se ti accarezzano, a guardare se ti guardano, a parlare se ti parlano, a sorridere se ti sorridono, ad ascoltare se ti ascoltano.

Pubblicato 11 mesi faEdizione del 22 novembre 2023

L’educazione affettiva si impara da piccoli, da molto piccoli. Si impara ad accarezzare se ti accarezzano, a guardare se ti guardano, a parlare se ti parlano, a sorridere se ti sorridono, ad ascoltare se ti ascoltano. E’ come acquisire per imitazione ed esperienza una scatola degli attrezzi affettivi. Crescendo, quegli attrezzi saranno usati per dare una forma alle relazioni con amici, parenti, compagni di scuola, adulti, genitori. Crescendo ancora si imparerà che esistono altri attrezzi per vivere il rapporto con il proprio corpo e il corpo degli altri, il sesso, l’amore.

IN CERTI CASI, se la scatola degli attrezzi è sguarnita, alcuni imparano a completarla strada facendo perché si accorgono che manca qualcosa, scatta un bisogno, ma è una ricerca lunga, non sempre facile e nemmeno scontata. In tutto ciò fa una differenza abissale il contesto in cui si vive perché la vita di tutti noi è fatta di incontri, e tutti noi assorbiamo l’aria che respiriamo. Se respiriamo veleno, rancori, silenzi, violenza, una certa mentalità piuttosto che un’altra, sarà molto più facile restare intossicati.
Quando si parla di cultura patriarcale parliamo dell’humus sociale e familiare in cui bambini crescono. Non è necessario che assistano a fatti violenti eclatanti per assorbire una certa mentalità, bastano piccole frasi, commenti, un atteggiamento abituale per avvelenare l’aria dove si cresce. Bastano commenti negativi o sminuenti detti da un padre verso una madre, una frase giudicante su come vanno vestite le donne che se la cercano, basta sentire gli amici che dividono le ragazze fra sante e puttane, perché ancora succede questa cosa tremenda, nel 2023, e l’aria che respiri si intorbidisce e tu, adolescente, che magari hai una scatola degli attrezzi un po’ traballante, per farti accettare dal gruppo decidi che al gruppo devi assomigliare. Nei casi migliori fai qualche stupidaggine, nei casi peggiori diventi assalitore fra gli assalitori.

DENTRO a questo gigantesco marasma che è il mestiere di crescere, a un certo punto entrano il sesso, le tempeste ormonali, gli innamoramenti, il corpo che cambia, la percezione che hai di te, il giudizio degli altri, i primi approcci, non sai come si fa, nessuno te lo ha spiegato, tu non hai il coraggio di chiedere, non sai a chi chiedere. In sostanza, sei solo e non a caso ho scelto il sostantivo maschile perché sono proprio i maschi i meno abituati a parlare, a chiedere aiuto. Basterebbe un dato a spiegare quanto lavoro debbano ancora fare i maschi per costruire confidenza con il proprio corpo, che non vuol dire fare sport o andare in palestra, ma proprio sapere come si è fatti e si funziona anche lì, dalle parti del sesso.
Anni fa, scrivendo «La vita Viagra», un’inchiesta su come era cambiata, se era cambiata, la sessualità maschile con l’arrivo del Viagra, parlai con molti urologi. Tutti mi dissero che gli uomini andavano da loro solo quando e se avevano problemi «Da quelle parti». Alcuni erano così poco avvezzi a quel tipo di visita che si sdraiavano sul lettino e tenevano su le mutande, come se l’urologo fosse un Superman con la Supervista.
Noi, le donne, abbiamo le madri che ci accompagnano del ginecologo alla prima mestruazione. Il numero della ginecologa è nella nostra agenda, spesso diventiamo loro amiche. Sessant’anni fa non era così. Abbiamo imparato. Perché non imparano anche i maschi? Quando diventerà normale che un padre accompagni il figlio quattordicenne dall’urologo? Forse aspettiamo che sia la famosa ora di educazione sessuale a scuola a spiegarci che così si dovrebbe fare. Auguri.

mariangela.mianiti@gmail.com

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