Kosmàs Politis, la ragazzina-gorgone nel teatro dei rimandi
Scrittori greci Una banda di quattordicenni che gioca all’«Iliade», poi arriva Monica... «Eroica» di Kosmàs Politis, «romanzo» (1938) saturo di rifrazioni letterarie, tradotto in italiano per la prima volta: da Crocetti
Scrittori greci Una banda di quattordicenni che gioca all’«Iliade», poi arriva Monica... «Eroica» di Kosmàs Politis, «romanzo» (1938) saturo di rifrazioni letterarie, tradotto in italiano per la prima volta: da Crocetti
Non c’è verso, l’orecchio straniero si rifiuta di abituarsi al fatto che il cameriere del bar sotto casa si chiama Orfèas, la sbrigativa edicolante in piazza Andigòni, e la cassiera del macellaio Kalliòpi. In questa specie di trappola dell’evocazione, dei nomi propri quanto dei toponimi (Sparta – oggi autentico «buco nero di mosche», come direbbe il Marco Polo delle Città invisibili –, Argolide, Arcadia, Laconia, ecc.), inevitabilmente cade da secoli il visitatore europeo, che finisce più o meno involontariamente per operare sistematiche sovrapposizioni immaginali a tutto ciò che vede e sente in terra ellenica.
A un narratore come Kosmàs Politis (1888-1974), raffinato poliglotta reduce da una vita vissuta all’estero e tornato ad Atene solo in età adulta, questo straniante effetto linguistico non doveva essere sconosciuto.
Tutt’altro, tanto che nel suo quinto e più noto romanzo imbastì a partire da esso un vero e proprio teatro di ombre letterarie, un misterioso quanto affascinante gioco di rifrazioni che lo portò alla composizione di Eroica, scritto nel 1938, e finalmente adesso reso disponibile in italiano nella bellissima versione di Gilda Tentorio (Crocetti Editore, pp. 246, € 18,00), attenta a ricreare una nuova traccia musicale sul palinsesto di quella che innerva il greco moderno di Politis.
Prima ancora di aprire il libro, il «gioco» è già cominciato in copertina: «Kosmàs Politis» è pseudonimo (al secolo Paris Traveludis) che dichiara quel cosmopolitismo del quale la inclinazione plurilinguistica dell’autore è fiera interprete. Quanto a «Eroica», la polisemia del titolo guarda tanto alla terza sinfonia di Beethoven, citato nel testo, quanto allo statuto ironicamente «omerico» dei personaggi: prime indicazioni che segnalano il modello omerico-joyciano dello Ulysses, il grande totem polisemico e musicale del modernismo europeo, al quale il libro di Politis guarda da lontano con sicura ammirazione, più che altro per quanto riguarda il sistematico intreccio parodistico di scene moderne e ancestrali, cui lo scrittore greco ricorre in modo assai più leggibile.
Unità di tempo e di luogo sono riconoscibili, ma dalle pagine di Eroica difficilmente si può risalire a una definizione tradizionale di romanzo: rinunciando in modo via via più disinvolto a una qualche consequenzialità diegetica, in esse si va componendo una sequenza di scene che pur rassomigliando a un racconto unitario – per il tramite del narratore, il vecchio Paraskevàs, che rimembra i tempi della prima adolescenza vissuti con il suo gruppo di amici –, si sgrana sotto gli occhi del lettore in un allestimento all’interno del quale ogni pannello rivela una autonoma valenza simbolica. Essa si sprigiona attraverso una fitta rete di rimandi, a volte esplicitati, altre volte soltanto suggeriti, e si articola in eventi e descrizioni sature di particolari che si stagliano nitidi su uno sfondo vago, offuscato dall’attitudine del narratore, il quale interviene spesso con considerazioni astratte, e lascia andare fuori sesto la linea diacronica della fabula confondendo i tempi verbali, sul modello del Nerval della brumosissima Sylvie (i sentieri di Eroica sono disseminati di segni e caratteri che richiamano i più vari prosatori francesi e inglesi, tra Otto e Novecento).
In una città innominata (una sorta di Smirne o Atene immaginaria del 1900) Paraskevàs racconterebbe, non senza una profonda nostalgia del tono, le avventure della sua «banda», quattordicenni che compiono qualche bravata, e giocano con elmi di latta a impersonare gli eroi dell’Iliade.
Poi, però, arrivano le ragazze: tra le Persefòni, le Afrodìti (!), si fa largo la apparizione quasi mistica di Monica (nel cui nome si può indovinare forse il risultato di una permutazione alfabetica da Medusa). È la figlia di un diplomatico straniero, e nel giardino del consolato – giardino dell’Eden, volendo, ma anche e soprattutto foresta di simboli – i protagonisti finiranno con l’esperire più o meno tutte le figure della eterna danza tra Eros e Thanatos.
Fulminati dallo sguardo della gorgone – in realtà una innocente ragazzina come loro – Alekos, Paraskevàs, Loìzos e compagnia si innamorano, e dunque nel solco della tradizione tragica del pàthos, si «ammalano»: ognuno va incontro al suo male, chi sprofondando in una quieta malinconia, chi (il narratore) costretto a restare «pietrificato» nel suo ruolo di coscienza degli eventi, chi trovando la morte.
Il destino più ambiguo tocca alla silenziosa guida del gruppo, Loìzos, che in una scena struggente quanto inafferrabile abbandona tutto e si allontana, fino a scomparire, al seguito di una compagnia di attori che passa lungo la strada. È, quest’ultima, una immagine ricorrente della poesia e della prosa greca contemporanee: una compagnia di attori che entra in scena, elemento quasi metanarrativo, reificazione del discorso che intreccia le radici del teatro tragico alle nuove ramificazioni delle lettere greche.
L’addio silente di Loìzos sarebbe forse piaciuto all’ultimo gigante nato all’ombra di quell’albero, Theo Angelopoulos, che seguì in un suo lungometraggio del 1975, La recita, il viaggio di una compagnia di attori, per poi farla riapparire all’improvviso nella memorabile scena di un altro film.
Una certa meccanicità dei fatti narrati acuisce nel lettore di Eroica, in effetti, il sospetto di una «rappresentazione», in cui ogni evento è già stato assegnato alla sua funzione scenica, e la predestinazione si insinua a ogni passo come l’inevitabile portato della tragedia. E mentre una maschera mortuaria appare dall’ombra a consigliare uno dei protagonisti, forse troppo tardi, all’ultima pagina una voce si lascia sfuggire addirittura: «Gli è riuscita proprio bene. Bella farsa».
Così, con un tratto di ironia a infiltrare il lirismo, il collage di echi e riferimenti si sottrae infine all’interpretazione, congedando il lettore senza la chiave per risolverlo come se fosse un enigma, e concedendo in cambio soltanto l’ultimo inchino prima di lasciare vuoto il palcoscenico.
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